E quindi, sono tornata in Italia.
Voi mi avevate lasciata lì, a prendere il volo per Milano, quella Milano che mi era stata preclusa per anni e a cui ero ora libera di tornare, così, per vedere che aria tirava.
Milano che è cambiata così tanto, e il mio quartiere, che invece è sempre uguale, eccetto per il fatto che chi andava a scuola con te ha acceso mutui, fatto bambini, si è sposata. Tu, no. Tu invece non hai fatto niente di tutto ciò, hai fatto molto altro, eppure per molte persone in quel mondo, quello che hai visto tu, quella tua vita in un caleidoscopio, quasi non conta. Di Milano... Di Milano meglio che parliamo un'altra volta.
Tanto mi mancava casa quando stavo male, tanto quanto Milano sembra casa sempre meno, mano a mano che io mi sento sempre meglio. E' segno di forza, ma dà anche una sensazione di confusione. Lunga storia, quella dell'identità di un emigrato decennale.
Nonostante tutto, intendo dire gli attacchi terroristici, e la tensione, a luglio avevo deciso di andare in Turchia, a Istanbul. Quella sì, che mi mancava ancora, perché anche se Asburgo ed io ci eravamo incontrati là, lui non aveva mai voluto tornarci con me.
Secondo alcuni, forse perché temeva che poi non avrei voluto venire via, e forse, avevano ragione.
Secondo alcuni, forse perché temeva che poi non avrei voluto venire via, e forse, avevano ragione.
Ad ogni modo, ero già passata da Istanbul, mentre tornavo a Milano. Prestissimo la mattina, sono atterrata alle cinque e qualcosa del mattino, controllo passaporti, sono arrivata in centro verso le sette, con il tram, a Eminönü. La città vecchia, quella che scopri quando sei turista. Sono arrivata lì, ho guardato il Bosforo verso nord, e una voce chiarissima, calma, ma piena, piena di felicità, ha accelerato i battiti a mille, ha detto sei a casa, Nat. Sei a casa tua! Questa è la tua città. La Città! La Città più bella del mondo. Più bella di Roma, di Parigi, di Città del Messico e tutto il resto. Istanbul la bella.
Dal tetto del vapur |
Era una giornata di sole. Non avevo dormito, ero stanca, ma stavo per vedere la mia famiglia turca -- la mia prima host di couchsurfing di dieci anni fa, e suo padre, e scoppiavo di felicità nonostante tutto.
Quando meno te lo aspetti, spunta la parola casa. Anche, o forse soprattutto, spunta quando hai tantissimo sonno. |
Sono andata da lei, mi ha portato a casa.
Mi ha detto, fatti una doccia, così ho fatto, fatti anche un pisolino, così ho fatto. Mentre cambiavo i vestiti, e mi addormentavo nella penombra della stanza dove avevo dormito i miei primi sonni turchi del 2008, ho sentito di nuovo i gabbiani.
Uno dei suoni di Istanbul, una delle prime cose di cui mi sono innamorata.
Al mio risveglio, suo padre mi aveva preparato la kahvaltı, la loro colazione tipica. Formaggio, olive, pomodori freschi, cetrioli, pane. Mi abbraccia, mi chiede di mia madre, mi dice, te lo ricordi ancora il turco? Gli dico di no, lui parla lo stesso, mi rendo conto che capisco. E' sempre stato paziente e gentile, quando ero arrivata qui come una ragazzina messa malaccio, mi aveva fatto da papà, dopo che aveva saputo che io avevo perso il mio. Lui aveva perso la moglie, sua figlia la madre. Capiva molto bene. Posso parlare a malapena con lui, eppure gli voglio un bene dell'anima, a questo signore alto, con gli occhi azzurri, che ai tempi del golpe del 1980 era un musicista con una testa leonina di riccioli e un sorriso chiaro.
E' da dieci anni che ogni volta che metto piede a Istanbul, io mi sento a casa mia.
Mi ha detto, fatti una doccia, così ho fatto, fatti anche un pisolino, così ho fatto. Mentre cambiavo i vestiti, e mi addormentavo nella penombra della stanza dove avevo dormito i miei primi sonni turchi del 2008, ho sentito di nuovo i gabbiani.
Uno dei suoni di Istanbul, una delle prime cose di cui mi sono innamorata.
Al mio risveglio, suo padre mi aveva preparato la kahvaltı, la loro colazione tipica. Formaggio, olive, pomodori freschi, cetrioli, pane. Mi abbraccia, mi chiede di mia madre, mi dice, te lo ricordi ancora il turco? Gli dico di no, lui parla lo stesso, mi rendo conto che capisco. E' sempre stato paziente e gentile, quando ero arrivata qui come una ragazzina messa malaccio, mi aveva fatto da papà, dopo che aveva saputo che io avevo perso il mio. Lui aveva perso la moglie, sua figlia la madre. Capiva molto bene. Posso parlare a malapena con lui, eppure gli voglio un bene dell'anima, a questo signore alto, con gli occhi azzurri, che ai tempi del golpe del 1980 era un musicista con una testa leonina di riccioli e un sorriso chiaro.
E' da dieci anni che ogni volta che metto piede a Istanbul, io mi sento a casa mia.
Ho passato la giornata con Ö., a bere tè sul mare, a passeggiare, ad aggiornarci sulle nostre vite, sulla sua vita da quando ha deciso di vivere pubblicamente la sua omosessualità in un paese che sta diventando sempre più intollerante per queste cose. Siamo andate a trovare i sui amici che organizzavano il gay pride nella parte europea, che un paio di giorni dopo sarebbe stato gravemente contestato.
Nel pomeriggio ho visto un altro caro amico, e ho pensato, è il momento giusto per tornare qui e vedere come va. Nonostante tutto, perché quello che leggi sui media e la realtà di una città sono sempre molto differenti. Sono ripartita.
Nel pomeriggio ho visto un altro caro amico, e ho pensato, è il momento giusto per tornare qui e vedere come va. Nonostante tutto, perché quello che leggi sui media e la realtà di una città sono sempre molto differenti. Sono ripartita.
Ho passato qualche giorno a Milano, sono andata a Roma con un amico a fare la turista, e poi sono andata di nuovo a Istanbul.
Anche a Istanbul, ho sentito il tempo che passava.
Parlando di quando sarei arrivata per restare più tempo di un cambio voli intercontinentale, come capita sempre, mi sono resa conto che crescere vuol dire semplicemente anche essere più occupati -- presi dal lavoro, dai partner, dai figli. Da tutti e tre.
Io invece non avevo nulla di cui occuparmi tranne che me stessa, allora sono andata nel sud, a Olympos, per aspettare il weekend e vedere il mio Mediterraneo.
Olympos è la mia piccola Atlantide, un posto dove mi succedono sempre cose importanti.
E infatti è stato così anche stavolta.
Ho conosciuto una persona, lì. La cosa più vicina al colpo di fulmine che abbia provato in vita mia, una vertigine, e anche se non ha portato a niente di concreto, perché la vita è una cosa complicata, ha portato però due cose: la prima, una persona in più nel largo cast di persone che mi circondano nella vita, una persona che resterà sempre un po' speciale, perché anche se ci sono milioni di ragioni per cui non può funzionare, ci teniamo l'uno all'altra. Perché lui è stata la prima persona per cui ho sentito qualcosa di positivo dopo molto tempo. Perché io sono stata la prima persona che l'ha trattato per quello che era, senza pensare a da dove venisse.
La seconda cosa che ha portato è la consapevolezza che il mio cuore non è spento, anche se sembra esserlo la maggior parte del tempo, ancora adesso, soffocato dal peso di troppo lavoro, troppo poco sonno e dall'essere in una città piena di animali bizzarri.
Lo incontri con la tua compagna di dorm sudafricana dopo una giornata a cuocerti sui ciottoli, guardando le rovine, e il tuo mare, il Mediterraneo, il tuo mare. Il tuo cuore un po' più sereno, dopo una nottata passata a piangere inesorabilmente, piano, telefono in mano, linea diretta con Milano e Bangkok, attraversando una fetta polverosa di Anatolia, campi gialli, strade deserte.
Alla partenza da Istanbul, il tuo amico O. che avevi visto qualche ora prima ti ha scritto, buon viaggio, mi dispiace che sei stata così male quando eri così lontana. Sei scoppiata a piangere piano, guardando verso il finestrino mentre aspettavi di partire. Il ragazzo che ti ha venduto il biglietto ti ha guardato piangere, con aria interrogativa, senza smettere quando hai visto che lo avevi notato. Ti ha guardato, ha fatto spallucce come a dire, è una vita dura, che vuoi farci?
Passi una notte in cui tiri su col naso così spesso che in piena notte, altro momento di empatia inattesa, il turco col gel nei capelli e l'aria da bulletto, dall'altra parte del corridoio, attira la tua attenzione silenziosamente, per darti il suo pacchetto di fazzoletti, sorridendo, come a dire, dai, poi ti passa, che sarà mai...
Questa capacità di fare spallucce che avevo notato anche a Istanbul, la notte prima di trasferirmi a Bangkok, partendo ubriaca fradicia dopo essere stata fuori con due amiche turche, io a Bangkok non ci volevo andare. La signora velata due sedili più in là mi aveva guardato, pensavo mi giudicasse e invece mi aveva sorriso, dicendo, Ağlama, okay. Non piangere, va tutto bene.
Quando poi il giorno dopo sei al sole, a guardare il mare e mangiare cozze al limone con una ragazza carina, che viene da un altro mondo e che ti invita ad aprirti sul motivo di quell'aria triste, sei ancora più grata di essere al mondo, libera di viaggiare e con i soldi per farlo.
E poi. A fine giornata, cotte di sole, la mia nuova amica ed io siamo tornate alla nostra guesthouse, per la cena in comune. La Turchia deserta di turisti per la campagna mediatica negativa in Europa, si fa una tavolata sola per tutti gli ospiti, un tavolo rotondo.
Mi faccio una doccia al volo perché sono andata direttamente dall'autobus al mare per cercare di stare meglio e ora sono piena di sale, torno, riempio il mio piatto di melanzane, pane, pomodori e yogurt e mi siedo.
Alzo gli occhi, e mi trovo davanti un ragazzo, che mi fissa come se mi volesse mangiare, senza dire niente, senza sorridere, anche. Sguardo magnetico, verde, sopracciglia scure, pelle chiara, bellezza che viene da un'altra parte, penso. Questo non è di qui, penso.
Brutta scena da romanzo rosa?
L'ho pensato anche io, e mi sono detta, sì vabbè, ma figurati. Uno con due occhi così? Mica è qua per me. Ho pensato. E durante la cena, l'ho trattato come tutti gli altri, come un potenziale compare di chiacchiere, bevute, risate, un compare molto bello, ma nient'altro, la mia solita versione viaggiante, chiacchierona, ridanciana e amichevole.
E invece è stata una sbandata, uno scapaccione che mi ha fatto traballare per mesi interi, dopo. E meno male che esistono ancora queste cose, meno male che il cuore ha ancora capacità di provarle, anche se il cervello striscia i piedi e dice no, dai, di nuovo? Anche no, ragazza, forza. Per favore.
Ovviamente, siccome si tratta di me, mica poteva succedere con un uomo in una situazione normale.
Che ne so, un europeo qualsiasi in vacanza.
Un turco che faceva un weekend lungo.
Un fricchettone di passaggio.
No. No, no. Io dovevo per forza prendermi la cotta per un profugo siriano, bello come il sole, a metà tra un modello e un attore, in attesa di asilo politico, con dei macigni nello stomaco che davano una profondità scura a quella bellezza di superficie.
Ma io mica lo sapevo, che era un profugo siriano. Non sapevo niente, quando l'ho visto, non lo sapevo che il suo quartiere non esiste più, che non può più tornare a casa, che i suoi genitori e i suoi fratelli minori sono scappati in Europa sui barconi, ma che per lui e l'altro suo fratello non c'erano soldi, che ha visto cose che noi umani non possiamo immaginare, come tanti siriani, purtroppo. Quello l'avrei saputo solo dopo, e avrebbe solo contribuito alla mia ammirazione per la sua capacità di provare ancora cose come felicità, amore, affetto, gioia e ottimismo, dopo tutto quello che gli è successo.
La resilienza vera.
Ho passato quei giorni nella mia personale Atlantide a palleggiarmi tra la sua compagnia, il mare, il sole, e le camminate nelle rovine, ad ascoltare grilli e cicale, rumori che a Bangkok non ci sono, e mi ha fatto bene al cuore, perché io mica me lo ricordavo, com'era avere a che fare con una persona gentile. Non me lo ricordavo proprio. Carattere caldo ed espansivo, affettuoso come lo sono io, nessun imbarazzo per i proprio sentimenti. Impossibile credere che venisse dallo stesso pianeta dell'Asburgico, sempre in guardia con gli altri.
E poi è arrivato il giorno in cui avevo deciso di tornare a Istanbul.
Lui che diceva, che ci torni a fare? Tanto sei in vacanza, resta qui, stiamo insieme ancora un po'.
Ma io volevo tornare alla Città, e dai miei amici, e quindi, sono andata.
Prendo un bus locale, guardo la macchia mediterranea fuori al tramonto, mentre saliamo su per la collina verso la strada principale.
Penso a quanto mi è mancato quel paesaggio di oleandri e pini marittimi, penso che io l'Asia la adoro e la amerò sempre, ma che casa mia è questa.
Casa mia è il Mediterraneo, sono i pini marittimi, i carrubi, gli ulivi, il cielo azzurro intenso, le melanzane, i pomodori, le olive e le viti.
Arrivo alla stazione di Antalya, cena veloce con i soliti, amati snack turchi, poi vado al mio autobus. Autobus di lusso, ogni sedile con la TV, come in aereo.
Mi siedo, l'autobus in attesa di partire è silenzioso. Partiamo, mi rendo conto che non parla nessuno, proprio nessuno, percepisco tensione, vedo che tutti guardano lo stesso canale mezzi impietriti.
Accendo anche io, e leggo di terrorismo ad Ankara.
Cazzo. Vabbè. Vabbè ma mica stiamo andando ad Ankara noi, no?
L'autobus parte, esce dalla stazione.
Mi chiama F., il ragazzo siriano: hai visto cosa sta succedendo? Non andarci, a Istanbul. E' pericoloso.
Ti richiamo dopo, tesoro, grazie, però.
Riguardo lo schermo, scrivo a mia madre che è tutto sotto controllo e di ascoltare solo me e non guardare i telegiornali o chiedere agli amici che sanno dove guardare, mi chiama un'amica di Milano, abita a Istanbul ma è in visita da sua madre, mi dice, senti, sembra che ci siano i carrarmati fuori dal Parlamento e sopra Istanbul, gli aerei militari a bassa quota, occhio.
Colpo di stato. Golpe. Darbe.
Vabbè. Ma la capitale è Ankara, che può succedere, a Istanbul? Mica c'è un Parlamento da occupare.
Però c'è una popolazione da intimidire.
E poi vedi i carrarmati sul ponte sopra il tuo mare, a Istanbul, sopra il ponte di Ortaköy, vicino a casa del tuo amico O., dove hai passato così tante notti a dormire dopo le feste, perché eri troppo pigra per tornare giù verso casa tua.
Quella casa dove una volta O. ti ha sequestrato, un primo maggio, perché non voleva che finissi in mezzo ai lacrimogeni e ti ha fatto aspettare fino alle sei di sera per tornare, a piedi, giù fino a casa tua, vicino al vecchio arsenale.
L'autobus va, non dice niente nessuno, a un certo punto si ferma.
Richiama F., il panico nella voce di uno che ha visto cose brutte e se ne aspetta altre.
Senti, scusa, per favore. Mio fratello ha trovato una macchina, ce la dà la proprietaria dell'ostello, ti veniamo a recuperare noi e vedi cosa fare domani, non ci andare oggi, per favore.
Gli dico di no, che è meglio che vada invece, che se scoppia un casino vero sono più vicina al consolato e a un aeroporto internazionale. Gli dico che l'unica cosa che devo fare è arrivare da Taksim a casa del mio amico, che lui è lì da anni, che ci starà attento lui a me.
Insiste anche il fratello. Io dico niet, non scendo dall'autobus.
Nottata psichedelica. Non chiudo occhio, tra il feed di facebook impazzito con gli italiani in panico, F. che mi manda aggiornamenti, il mio amico italiano a Istanbul che mi dice vieni a stare da me e, con nonchalance, guarda che questo l'ha organizzato tutto quello, non succederà nulla, veramente.
Verso le tre del mattino il nostro autista, sui 60, ha un malore.
Io penso che si sia ricordato del golpe del 1980, e che avesse davvero molta paura. In piena notte, scendo con un capannello di uomini a fumare sigarette e bere tè in mezzo al niente delle montagne. Sono in maglietta, fa freddo. C'è una stellata della madonna, ancora più nitida di quella sul mare qualche notte prima, con F.
Dopo 40 minuti, arriva un'ambulanza. Ripartiamo con l'autista di riserva.
A ogni stop un ragazzo curdo che era sull'autobus mi offre un çay e una sigaretta, i collanti sociali del paese, chiacchieriamo usando google translate sul suo telefono.
Dopo 17 e passa ore di viaggio, blocchi di polizia, traffico, tensione, arrivo a Istanbul, a Taksim. Mai vista la piazza così vuota in dieci anni di frequentazioni. Scendo a piedi verso casa del mio amico. Anche Istiklal, la via principale dello shopping a Beyoglu, è vuota. Giro a destra, passo davanti all'Istituto Italiano di Cultura -- casa -- e scendo verso casa sua.
Mi aspetta con il suo sorriso da gatto e la sua solita aria ironica di sempre, per niente scomposto, in fondo a un vicolo acciottolato, davanti a casa sua.
Ci sono un pergolato, una massa di gattini randagi, che dormono sulla panchina di marmo di fianco alla porta, una vecchia porta di ferro battuto.
Dentro, lui e sua moglie hanno preparato la kahvaltı per noi tre, e il loro gattino, Fairuz, non vede l'ora di conoscermi.
Entro, e tiro il sospiro di sollievo più lungo della mia vita.
Casa loro è bellissima, il formaggio delizioso, lui è lo stesso di anni fa, e sua moglie è carinissima. Fairuz e io diventiamo amici.
E niente.
Ci sono luoghi e persone che anche nel mezzo di un golpe... Restano casa.
Parlando di quando sarei arrivata per restare più tempo di un cambio voli intercontinentale, come capita sempre, mi sono resa conto che crescere vuol dire semplicemente anche essere più occupati -- presi dal lavoro, dai partner, dai figli. Da tutti e tre.
Io invece non avevo nulla di cui occuparmi tranne che me stessa, allora sono andata nel sud, a Olympos, per aspettare il weekend e vedere il mio Mediterraneo.
Olympos è la mia piccola Atlantide, un posto dove mi succedono sempre cose importanti.
E infatti è stato così anche stavolta.
Le rovine vicino all'acqua |
E naufragar mi è dolce in questo mare |
La seconda cosa che ha portato è la consapevolezza che il mio cuore non è spento, anche se sembra esserlo la maggior parte del tempo, ancora adesso, soffocato dal peso di troppo lavoro, troppo poco sonno e dall'essere in una città piena di animali bizzarri.
Lo incontri con la tua compagna di dorm sudafricana dopo una giornata a cuocerti sui ciottoli, guardando le rovine, e il tuo mare, il Mediterraneo, il tuo mare. Il tuo cuore un po' più sereno, dopo una nottata passata a piangere inesorabilmente, piano, telefono in mano, linea diretta con Milano e Bangkok, attraversando una fetta polverosa di Anatolia, campi gialli, strade deserte.
Alla partenza da Istanbul, il tuo amico O. che avevi visto qualche ora prima ti ha scritto, buon viaggio, mi dispiace che sei stata così male quando eri così lontana. Sei scoppiata a piangere piano, guardando verso il finestrino mentre aspettavi di partire. Il ragazzo che ti ha venduto il biglietto ti ha guardato piangere, con aria interrogativa, senza smettere quando hai visto che lo avevi notato. Ti ha guardato, ha fatto spallucce come a dire, è una vita dura, che vuoi farci?
Passi una notte in cui tiri su col naso così spesso che in piena notte, altro momento di empatia inattesa, il turco col gel nei capelli e l'aria da bulletto, dall'altra parte del corridoio, attira la tua attenzione silenziosamente, per darti il suo pacchetto di fazzoletti, sorridendo, come a dire, dai, poi ti passa, che sarà mai...
Questa capacità di fare spallucce che avevo notato anche a Istanbul, la notte prima di trasferirmi a Bangkok, partendo ubriaca fradicia dopo essere stata fuori con due amiche turche, io a Bangkok non ci volevo andare. La signora velata due sedili più in là mi aveva guardato, pensavo mi giudicasse e invece mi aveva sorriso, dicendo, Ağlama, okay. Non piangere, va tutto bene.
Quando poi il giorno dopo sei al sole, a guardare il mare e mangiare cozze al limone con una ragazza carina, che viene da un altro mondo e che ti invita ad aprirti sul motivo di quell'aria triste, sei ancora più grata di essere al mondo, libera di viaggiare e con i soldi per farlo.
E poi. A fine giornata, cotte di sole, la mia nuova amica ed io siamo tornate alla nostra guesthouse, per la cena in comune. La Turchia deserta di turisti per la campagna mediatica negativa in Europa, si fa una tavolata sola per tutti gli ospiti, un tavolo rotondo.
Mi faccio una doccia al volo perché sono andata direttamente dall'autobus al mare per cercare di stare meglio e ora sono piena di sale, torno, riempio il mio piatto di melanzane, pane, pomodori e yogurt e mi siedo.
Alzo gli occhi, e mi trovo davanti un ragazzo, che mi fissa come se mi volesse mangiare, senza dire niente, senza sorridere, anche. Sguardo magnetico, verde, sopracciglia scure, pelle chiara, bellezza che viene da un'altra parte, penso. Questo non è di qui, penso.
Brutta scena da romanzo rosa?
L'ho pensato anche io, e mi sono detta, sì vabbè, ma figurati. Uno con due occhi così? Mica è qua per me. Ho pensato. E durante la cena, l'ho trattato come tutti gli altri, come un potenziale compare di chiacchiere, bevute, risate, un compare molto bello, ma nient'altro, la mia solita versione viaggiante, chiacchierona, ridanciana e amichevole.
E invece è stata una sbandata, uno scapaccione che mi ha fatto traballare per mesi interi, dopo. E meno male che esistono ancora queste cose, meno male che il cuore ha ancora capacità di provarle, anche se il cervello striscia i piedi e dice no, dai, di nuovo? Anche no, ragazza, forza. Per favore.
Ovviamente, siccome si tratta di me, mica poteva succedere con un uomo in una situazione normale.
Che ne so, un europeo qualsiasi in vacanza.
Un turco che faceva un weekend lungo.
Un fricchettone di passaggio.
No. No, no. Io dovevo per forza prendermi la cotta per un profugo siriano, bello come il sole, a metà tra un modello e un attore, in attesa di asilo politico, con dei macigni nello stomaco che davano una profondità scura a quella bellezza di superficie.
Ma io mica lo sapevo, che era un profugo siriano. Non sapevo niente, quando l'ho visto, non lo sapevo che il suo quartiere non esiste più, che non può più tornare a casa, che i suoi genitori e i suoi fratelli minori sono scappati in Europa sui barconi, ma che per lui e l'altro suo fratello non c'erano soldi, che ha visto cose che noi umani non possiamo immaginare, come tanti siriani, purtroppo. Quello l'avrei saputo solo dopo, e avrebbe solo contribuito alla mia ammirazione per la sua capacità di provare ancora cose come felicità, amore, affetto, gioia e ottimismo, dopo tutto quello che gli è successo.
La resilienza vera.
Ho passato quei giorni nella mia personale Atlantide a palleggiarmi tra la sua compagnia, il mare, il sole, e le camminate nelle rovine, ad ascoltare grilli e cicale, rumori che a Bangkok non ci sono, e mi ha fatto bene al cuore, perché io mica me lo ricordavo, com'era avere a che fare con una persona gentile. Non me lo ricordavo proprio. Carattere caldo ed espansivo, affettuoso come lo sono io, nessun imbarazzo per i proprio sentimenti. Impossibile credere che venisse dallo stesso pianeta dell'Asburgico, sempre in guardia con gli altri.
E poi è arrivato il giorno in cui avevo deciso di tornare a Istanbul.
Lui che diceva, che ci torni a fare? Tanto sei in vacanza, resta qui, stiamo insieme ancora un po'.
Ma io volevo tornare alla Città, e dai miei amici, e quindi, sono andata.
Prendo un bus locale, guardo la macchia mediterranea fuori al tramonto, mentre saliamo su per la collina verso la strada principale.
Penso a quanto mi è mancato quel paesaggio di oleandri e pini marittimi, penso che io l'Asia la adoro e la amerò sempre, ma che casa mia è questa.
Casa mia è il Mediterraneo, sono i pini marittimi, i carrubi, gli ulivi, il cielo azzurro intenso, le melanzane, i pomodori, le olive e le viti.
Arrivo alla stazione di Antalya, cena veloce con i soliti, amati snack turchi, poi vado al mio autobus. Autobus di lusso, ogni sedile con la TV, come in aereo.
Mi siedo, l'autobus in attesa di partire è silenzioso. Partiamo, mi rendo conto che non parla nessuno, proprio nessuno, percepisco tensione, vedo che tutti guardano lo stesso canale mezzi impietriti.
Accendo anche io, e leggo di terrorismo ad Ankara.
Cazzo. Vabbè. Vabbè ma mica stiamo andando ad Ankara noi, no?
L'autobus parte, esce dalla stazione.
Mi chiama F., il ragazzo siriano: hai visto cosa sta succedendo? Non andarci, a Istanbul. E' pericoloso.
Ti richiamo dopo, tesoro, grazie, però.
Riguardo lo schermo, scrivo a mia madre che è tutto sotto controllo e di ascoltare solo me e non guardare i telegiornali o chiedere agli amici che sanno dove guardare, mi chiama un'amica di Milano, abita a Istanbul ma è in visita da sua madre, mi dice, senti, sembra che ci siano i carrarmati fuori dal Parlamento e sopra Istanbul, gli aerei militari a bassa quota, occhio.
Colpo di stato. Golpe. Darbe.
Vabbè. Ma la capitale è Ankara, che può succedere, a Istanbul? Mica c'è un Parlamento da occupare.
Però c'è una popolazione da intimidire.
E poi vedi i carrarmati sul ponte sopra il tuo mare, a Istanbul, sopra il ponte di Ortaköy, vicino a casa del tuo amico O., dove hai passato così tante notti a dormire dopo le feste, perché eri troppo pigra per tornare giù verso casa tua.
Quella casa dove una volta O. ti ha sequestrato, un primo maggio, perché non voleva che finissi in mezzo ai lacrimogeni e ti ha fatto aspettare fino alle sei di sera per tornare, a piedi, giù fino a casa tua, vicino al vecchio arsenale.
L'autobus va, non dice niente nessuno, a un certo punto si ferma.
Richiama F., il panico nella voce di uno che ha visto cose brutte e se ne aspetta altre.
Senti, scusa, per favore. Mio fratello ha trovato una macchina, ce la dà la proprietaria dell'ostello, ti veniamo a recuperare noi e vedi cosa fare domani, non ci andare oggi, per favore.
Gli dico di no, che è meglio che vada invece, che se scoppia un casino vero sono più vicina al consolato e a un aeroporto internazionale. Gli dico che l'unica cosa che devo fare è arrivare da Taksim a casa del mio amico, che lui è lì da anni, che ci starà attento lui a me.
Insiste anche il fratello. Io dico niet, non scendo dall'autobus.
Nottata psichedelica. Non chiudo occhio, tra il feed di facebook impazzito con gli italiani in panico, F. che mi manda aggiornamenti, il mio amico italiano a Istanbul che mi dice vieni a stare da me e, con nonchalance, guarda che questo l'ha organizzato tutto quello, non succederà nulla, veramente.
Verso le tre del mattino il nostro autista, sui 60, ha un malore.
Io penso che si sia ricordato del golpe del 1980, e che avesse davvero molta paura. In piena notte, scendo con un capannello di uomini a fumare sigarette e bere tè in mezzo al niente delle montagne. Sono in maglietta, fa freddo. C'è una stellata della madonna, ancora più nitida di quella sul mare qualche notte prima, con F.
Dopo 40 minuti, arriva un'ambulanza. Ripartiamo con l'autista di riserva.
Il momento della resa dei golpisti. Visto in autobus, in TV, con gli occhi iniettati di sangue e il sonno nella testa, la mattina presto. |
A ogni stop un ragazzo curdo che era sull'autobus mi offre un çay e una sigaretta, i collanti sociali del paese, chiacchieriamo usando google translate sul suo telefono.
Dopo 17 e passa ore di viaggio, blocchi di polizia, traffico, tensione, arrivo a Istanbul, a Taksim. Mai vista la piazza così vuota in dieci anni di frequentazioni. Scendo a piedi verso casa del mio amico. Anche Istiklal, la via principale dello shopping a Beyoglu, è vuota. Giro a destra, passo davanti all'Istituto Italiano di Cultura -- casa -- e scendo verso casa sua.
Mi aspetta con il suo sorriso da gatto e la sua solita aria ironica di sempre, per niente scomposto, in fondo a un vicolo acciottolato, davanti a casa sua.
Ci sono un pergolato, una massa di gattini randagi, che dormono sulla panchina di marmo di fianco alla porta, una vecchia porta di ferro battuto.
Dentro, lui e sua moglie hanno preparato la kahvaltı per noi tre, e il loro gattino, Fairuz, non vede l'ora di conoscermi.
Entro, e tiro il sospiro di sollievo più lungo della mia vita.
Casa loro è bellissima, il formaggio delizioso, lui è lo stesso di anni fa, e sua moglie è carinissima. Fairuz e io diventiamo amici.
E niente.
Ci sono luoghi e persone che anche nel mezzo di un golpe... Restano casa.
La cumba, il bovindo di casa del mio amico, dove avrei passato molto tempo nei giorni post-golpe, insieme al piccolo Fairuz. |