Avete mai sentito parlare, o incontrato qualcuno che soffre di mal d'Africa? Io ne avevo un po', di quelli lì, all'università. 
O avete mai incontrato qualcuno che va in vacanza in sud est asiatico da anni senza mai stancarsi? Io sì. Non in Italia, a dire il vero, ma in Italia ne avevo conosciuti tanti che andavano in India per la quattordicesima volta.
Poi ci sono quelli che vanno sempre in America Latina, quelli matti del Messico, quelli che devono respirare aria patagonica quando hanno i soldi per farlo, ad esempio, quelli che vanno in Argentina ventimila volte perché è così gigante che un viaggio non basta. 
Quelli che devono andare in una foresta pluviale almeno una volta all'anno, che sia in Ecuador o Indonesia?
Quelli che vanno sempre in Nepal, che devono scalare montagne sopra i 7000m per essere felici. 
Quelli che si emozionano davanti a un mare di montagne visto da una vetta (non io, anche se dovrei tentare) e quelli che si emozionano quando sono in mezzo al mare su una piccola barchetta (assolutamente io.)

Ci sono anche quelli che hanno bisogno dei deserti. Io sono figlia di uno di loro, e ho lo stesso problema: adoro i deserti. Mi affascina il vuoto, mi affascina l'aria secca, mi vengono le crisi mistiche, nel deserto. Mi fa sentire piccola, e c'è silenzio. Sogno di vedere l'erg in Nordafrica, magari in Marocco o Algeria, e il deserto rosso della Namibia. So per certo che se potrò, tornerò nel deserto di Atacama e nella regione di confine tra Bolivia, Argentina e Cile, perché è uno dei posti più belli che abbia mai visto (se il deserto non ti rende triste, come capita ad alcuni.) Anni fa ho visto i deserti nordamericani... E vorrei tornare anche là. 

Atacama, Cile - foto mia
Tutto ciò per introdurre il concetto della dipendenza da viaggio. E anche quello del maldeunpoddetutto. Perché veramente: io sono grave. 
*parte saltabile se avete fretta*
Vado in sud-est asiatico, e mi incanto a guardare le ghirlande di fiori e la gentilezza della gente. Vado a Taiwan, e mi innamoro dei caratteri cinesi scolpiti nel legno dei templi. Vado a Istanbul e a Siviglia, e potrei guardare ogni singolo dettaglio delle decorazioni delle moschee, o stare seduta in quei cortili con gli aranci che hanno in Andalusia, bellissimi. Vado in Cile, e praticamente amo tutto quello che vedo, la natura più bellerrima che abbia mai visto, così pulita, e incontaminata. Vado a Riga, e amo le stradine strette del centro, vado a Londra e amo i parchi, a Parigi e amo il fiume, a Roma e amo i colori delle case. I muri in pietra o in tufo di un vicolo in Umbria.  Vado in Ecuador, e mi viene una mezza crisi mistica intorno a un falò nella giungla. Vado a Los Angeles, e mi incanto con gli artisti di strada, quegli stessi artisti di strada incontrati lungo tutto il mio periodo in Sudamerica, che mi raccontavano le loro storie da veri hippie, che vivono nei furgoncini ancora adesso. Vado in Birmania, Perù e Bolivia, e mi innamoro dei tessuti; in Malesia delle architetture in legno; in Vietnam dei loro piccoli caffè con le sedie in plastica e i vecchini che giocano a scacchi, i tempietti dentro i ficus giganti; in Thailandia, amo i vari piccoli posticini di media taglia, con la loro vita pacata e i ristorantini per strada.... La musica in Argentina, Turchia, Irlanda, Francia e Spagna.
*fine parte saltabile in caso di pepealculo o pigrizia oculare*

Insomma, capite il concetto, no? Vado da qualche parte, ed è veramente improbabile che non trovi qualcosa da amare, anche cose immateriali, come le storie degli spiriti dei nativi in Sudamerica, il blu del cielo contro il verde pallido delle tamerici in Grecia, il suono della chiamata alla preghiera a Istanbul, il verso dei gabbiani in mille posti nel mondo. Le città di mare. 

Il fatto è che questo pianeta è una meraviglia, ragazzi. Davvero. Lo so che l'Italia è bellissima, e quindi in tanti dicono perché andare via; lo so che servono soldi per viaggiare, ma neanche tanti, se ti accontenti e quel che ti interessa è spiare le persone. Vale la pena vedere cosa c'è là fuori. Io di viaggi come quello 2012-2013 ne potrei fare ancora un paio, neanche così lunghi, ma spero di poter viaggiare di nuovo per periodi più lunghi, magari tra un lavoro e l'altro... Perché vorrei vedere di più. Vorrei andare in Asia Centrale, vorrei andare in Africa, in Centroamerica. 

Mi piace vedere come vivono le persone, cosa fanno, cosa producono e cosa credono. Mi piace anche vedere in cosa siamo simili e in cosa diversi nel modo di rapportarci agli altri e al mondo. Viaggiare è fichissimo, perché il nostro pianeta non solo è pieno di natura meravigliosa (che stiamo distruggendo), ma anche di diversità culturale che dà le vertigini. E ahimè... Sta sparendo pure quella. L'Egitto e il Marocco che ha visto il mio babbo negli anni 70 erano probabilmente molto più diversi dall'Italia rispetto ad ora, perché il mondo si è rimpicciolito. 

Vi lascio con tre video che illustrano il concetto con immagini, musica e tanta poesia. 


Il primo, chi mi legge da un po' lo conosce: e' Latinoamérica di Calle 13, da Porto Rico, che ho guardato a ripetizione dopo aver lasciato l'America Latina, molto più innamorata del previsto. Bellissimo video, bella canzone. Se vi interessa il testo su youtube c'è una versione coi sottotitoli in inglese, se vi aiuta. 


Questo, invece, riguarda l'Asia. Un fotografo, credo francese, Kares Le Roy, ha viaggiato 56.000km via terra in Asia, a occhio partendo dalla Thailandia e arrivando in Turchia. Me l'aveva segnalato una di quelle artiste di strada incontrata in Ecuador, lei che ora è lì ma prima era in Asia, ed è figlia di una basca e di un kabyle. Me n'ero dimenticata e me ne sono ricordata qui. E' stupendo. L'ho guardato già una decina di volte.


E quest'ultimo, per finire con musica e ggioia ma con cervello, è Clandestino di Manu Chao, ma suonata in maniera molto, molto figa e molto in tema con quello di cui stiamo parlando qua.

Divertitevi :)
Sono esterrefatta. 

Mi sa che mi sto abituando a svegliarmi alle sei. (O meglio, mi stavo abituando, dato che questa settimana sono in vacanza, la prima vacanza pagata della mia vita, perché è Songkran, il capodanno thai, e quindi insomma, me la gratto, ma pagata. Altra cosa che ha dell'incredibile.)

Insomma, svegliarsi alle sei magari per voi è cosa normale e neanche degna di nota, ma per me è una cosa incredibile, perché io odio, odio con tutta me stessa, svegliarmi presto.

Ma come all'epoca mi abituai a vivere senza riscaldamento (Istanbul, inverno con grande nevicata del 2008); a vestirmi a cipolla e pensare che il freddo non è così freddo, se si hanno scarpe che isolano bene e di certo il freddo non può essere un valido motivo per chiudersi in casa (Vienna, 2009-2012); a Milano, nel 2009, mi dicevo che è normale usare più della metà dei propri guadagni per un affitto, e mi divertivo con poco (perché non potevo fare altro), ora, mi sto abituando a dormire per 5 ore, 6 al massimo, lavorare, e poi pennicare per ricaricare le batterie e godere delle ore restanti dopo il lavoro.

Bene. Qui a Bangkok, un po' mi sto convincendo e un po' autoconvincendo, che forse, tutte quelle persone strambe che mi dicono che svegliarsi presto sia figo, forse non siano tutte da rinchiudere. Almeno, non per sempre. Quando mi sveglio la mattina, di lunedì generalmente voglio morire, poi va a migliorare, e apprezzo il fatto che ci siano solo 26C e non sia tanto umido e quindi non serva il ventilatore, ad esempio, e mi gusto il suono delle cicale che fanno festa fuori.

Gli altri pregi del lavorare all'asilo nido sono di natura fisica ed economica. 

Economica, perché tecnicamente se vado avanti così della palestra non mi dovrò preoccupare. Perché a che serve pagare, quando ti occupi di dieci due-treenni ogni giorno che, per un motivo o per l'altro, devono essere presi in braccio varie volte al giorno, o tenuti a forza mentre si avventano su un altro figliolo che ha il giochino che vogliono loro esattamenteadessoora?

Il mio futuro, se vado avanti così - foto Wikimedia Commons
Un altro dei benefici della vita da insegnante d'asilo, cosa che io non ho mai aspirato ad essere, vi ricordo, ma che dopo un mesetto sta mostrando i suoi lati positivi, è che sto diventando un a provetta centometrista, dato che spesso devo rincorrere i nani nei loro tentativi di evasione dall'aula. Una nana in particolare, giapponese, è buffissima, è anche forte come una vitella e rapida come una faina. Blatera tra sé e sé in giapponese, facendo l'effetto di un simpatico tornado-anime, e ogni tanto va e infila la porta. Quindi, oltre che col sollevamento pesi, mi dò da fare anche con la corsa.

Pietro Mennea. Il mio altro santo protettore attuale (foto Wikimedia)
Altri pregi del lavorare all'asilo: oh, ma quanto si canta? Cioè, con 'sta storia che i nanerottoli non parlano inglese e quei pazzi furenti dei genitori pretendono che lo imparino a due anni, finisce che ce la cantiamo e ce la balliamo un sacco del tempo che stiamo insieme. Io all'inizio ero timida, mi prendeva male cantare e ballare, poi mi sono resa conto che ho come pubblico dei due-treenni asiatici, la mia collega filippina che se la balla da più tempo di me, e la tata thailandese che mi considera matta a prescindere, perché sono straniera, bionda, ho un buco nel naso, sono stata senza fissa dimora di mia volontà per più di un anno e ho vissuto, sempre di mia volontà, in un paese musulmano. Pazza furente, di nuovo. Quindi, tanto vale vincere la timidezza, ballare, cantare e regredire ai due o tre anni pure io.

Il mio terzo nume tutelare: la Raffa, che balla e canta ancor'oggi. Se può lei... 
Il quarto, ed ultimo, vantaggio del lavorare all'asilo è: l'ammore. Mi spiego: i nani mi vogliono bene, cioè, all'inizio no perché vorrebbero stare con la mamma, invece che con quella tizia alta e dalla faccia strana che parla una lingua che non capiscono. Chi più lentamente e chi più in fretta, però, hanno quasi tutti passato la fase della diffidenza, e sia quando arrivano che quando vanno via, vengono a darmi un abbraccio gigante, e baci, e carezze ai capelli, e chi più ne ha più ne metta. Ogni tanto, le bambine soprattutto, vengono a farsi dare un abbraccio gratis perché sembrano pensare, e perché no, diamine?

E' interessante, in fin dei conti. E' un'altra faccia dell'insegnamento, una di cui non m'è mai fregato una sega ma inizio a vedere perché a tanti piace così tanto. Se mi assumono per il prossimo anno accademico e mi danno un visto, ferie pagate e un pacco di soldi, giuro che un po' di quei soldi li userò per comprare dei libri di Piaget.

Per ora sono in vacanza, però, quindi ora sono in fuso orario natalico: in branda all'una o una e mezza e sveglia alle dieci. Tornare al lavoro sarà oréndo, ma me ne preoccuperò tra quattro giorni. 
Vi scrivo dal mio balcone. Il mio balcone è piccolo, ma io lo amo tanto. Lo amo come amavo il mio balcone di Milano - neanche lui era tanto grande, ma io e la mia famiglia ci passavamo un sacco di tempo. Dava sul giardino del condominio, quindi era tranquillo. Noi mettevamo fuori tre sedie pieghevoli, e passavamo le serate a chiacchierare, quando ero più grande anche fino a molto tardi. Una delle foto che mi piacciono di mio padre, che mi sono rimaste, è una delle prime che ho fatto in digitale, ed è lui, con aria meditabonda, sul balcone. 

Ecco, io i balconi e i terrazzi, li adoro. Mi piace da matti questo essere fuori e dentro casa allo stesso tempo. Non ho mai avuto un giardino, quindi non posso dire di amare i giardini come amo i balconi. A Vienna e Istanbul non avevo un balcone, e mi mancava da matti. A Istanbul, rimediavo passando la maggior parte del tempo buttata da qualche parte vicino al Bosforo, e quindi riuscivo a mettere una toppa. A Vienna, lavoravo assai, quindi non avevo il tempo di rimediare - e non avete idea di quanto ne soffrissi. Questa cosa del balcone, tra parentesi, la capisci solo se cresci con un balcone e poi ti ritrovi senza: quindi è un concetto che a mezza Europa manca. 

Comunque.

Sono sul mio balcone bangkokiano, che dà sul cortiletto interno di Melrose Place. 

Sento: il fischio lontano del treno per l'aeroporto che sta passando in questo momento. O forse quello per il nord, uno dei due. Sento: il ronzio dell'aria condizionata di due degli appartamenti vicino al mio. Sento: rumore di traffico, per fortuna in lontananza, come un rumore bianco. Sento: uno dei vicini che sta suonando il piano (o l'amico austriaco di M, o quell'altro che non ho ancora identificato.) Sento: un rumore di televisione, non molto alto. Sento: le cicale. Tantissime. La sera, e ancora di più all'alba e al tramonto, sembra di stare nella giungla, anzi no, che nella giungla senti ben più delle cicale. Sento: rumore di posate di qualcuno che mangia tardi. Forse il signore argentino che sta pensando di mangiare presto?

Vedo: gli abiti stesi ad asciugare dalle signore delle pulizie, quelli che non si sono ancora asciugati in giornata, quindi pochissimi. Le ombre della nuova coppia dei nostri vicini, lui giapponese, lei tedesca, con bimbina carina e quieta, muoversi dietro le tende del loro appartamento. Sei piante di oleandro, numerose piante verdi, un paio di palmette. Due pneumatici contro il muro, che servono a fermare le auto quando parcheggiano, ma con cui giocano anche i bambini del palazzo. Non vedo molto altro, oltre al tavolino su cui appoggio le gambe, l'altra sedia sul mio balcone, la cima del palazzone che sovrasta Melrose Place, e un bel tocco di cielo, che non è blu ma violetto, come accade  spesso nelle grandi città molto illuminate. 

Amo, adoro Melrose Place e il mio appartamento. Davvero. Finalmente ho di nuovo una casa. Questa casa la amo come non ho mai amato quella di Vienna. La amo come la mia casina dal parquet scricchiolante a Istanbul, che era il mio guscio di calma, insieme al coinqui curdo che mi faceva da fratello maggiore. Adoro tornare a casa e camminare nel mio vicolo, riconoscendo tutti i gatti che lo abitano e che scappano come dei ninja. Amo riconoscere il vecchietto scampanato che vedo alle sei del mattino, appena sveglio, coi pantaloni da pescatore arancioni, che fa gli esercizi per le spalle, da bravo vecchino asiatico. Amo il signore di mezza età, panzone, probabilmente di origine cinese, che lava i piatti del bugigattolo all'angolo, sigaretta in bocca, e mi saluta ogni volta che passo: anche quando passo sette o otto volte al giorno, lui mi sorride e mi saluta. Amo addentrarmi nel vicolo e sentire il traffico sparire, vedere gli alberi spuntare dai cancelli, le buganvillee pendere dai rami, i fiori di frangipane sparsi a terra sotto un albero particolarmente grande. Il vecchietto della zuppa, anche se ha il grugno. Le guardie della casa, che dormono, giocano a dama, leggono il giornale, mangiano, e in generale sembrano molto meno necessarie dei loro colleghi sudamericani (deo gratias). Amo sentire gli uccellini, che sia abbastanza silenzioso da sentire il fruscio delle palme vicino alla finestra della camera da letto, che la mattina a volte vedo gli scoiattoli rincorrersi tra i rami... E che camminando trecento metri, ritrovo una città pulsante e vitale, se mi va. Ma se non voglio, posso rifugiarmi a casa mia. Meraviglia. 

E' una bella giornata, oggi. Sono stanchissima perché sono tornata al lavoro dopo la malattia, ma i bambini sono stati bravi e tranquilli, oggi, e in più, sono anche stata pagata, che è una gran figata dopo non aver lavorato per così tanto. Sono fiera e perplessa di quanto sono sveglia, se penso che questa mattina sono emersa dal sonno alle cinque e mezza, prima della sveglia.

Vi lascio con una diapositiva esplicativa di uno dei motivi per cui i thai mi stanno simpatici: perché anche se ci hai trent'anni suonati, ti servono il curry con il riso in questa forma:

Come si fa a non amarli, almeno un po'?
Eh, scusate. Me ne sono resa conto solo ora, che sono a casa con un vibrione da ieri, e leggevo blog altrui, cosa che non facevo da un po'. E insomma, sul blog dell'esimio Manoel O., ho visto il link al mio che diceva "due settimane fa". Cioè: due settimane fa?!?

Devo scrivere, ho pensato. Ora!

E' che in due settimane, sono successe tante cose.
Ad esempio: ho trovato lavoro.
E' solo temporaneo, non è esattamente cosa che mi si confaccia più di tanto (insegnare a dei nani estremamente piccoli, non so, il giudizio è sospeso su se mi piace o meno), ma paga bene, e soprattutto, è molto meglio che starmene a casa con le mani in mano. Non sono per niente brava a stare con le mani in mano, affatto. 

In realtà questa del lavoro è la novità più grossa, che però mi appiana il cervello, perché sono passata da zero ore di lavoro giornaliero a otto, mi fanno svegliare alle sei del mattino, e sto imparando una cosa nuova. Quindi, encefalogramma piatto, a fine giornata. Il lato positivo dell'iniziare a un orario inumano è che finisco presto. Non sono ancora nella fase in cui sono così ganza da prendere e andare a fare cose subito dopo scuola, ma magari ci arriverò... Per ora, l'unica cosa che faccio è venire a casa e dormire per venti minuti, scolarmi una Bialetti da due intera, e ritornare nel mondo dei viventi.

Continuo a esplorare la città, che amo assaio. Ripeto: non è bella. Non lo è. E' troppo nuova, ma non abbastanza nuova da avere quello charme futuristico che hanno Singapore o Tokyo. Quello che è affascinante sono le pezze di vecchio che sopravvivono in mezzo a tutto 'sto nuovo, le vecchie case thailandesi in legno, con il giardino e tanti alberi. Ogni volta che ne trovo una, sembro una maniaca che sbircia nelle case altrui. 

Continuo l'esplorazione nel weekend, anche. Due settimane fa, sono andata a Chinatown, un sacco di cibo bònerrimo, caos e folla e motorini e sozzura e insegne in cinese e soprattutto, la vecchina del dim sum. Una vecchietta che avrà un'ottantina di anni, a vederla, e che è stata l'autrice del migliore cibo della nostra esplorazione sino-gastronomica, con i suoi ravioletti di maialino fatti a mano, con la carta di riso gialla. Li vendeva in un cestone di vimini piazzato su uno sgabello, e ce ne ha regalati due in più quando ha visto la nostra faccia al primo assaggio. Meravigliosa. Vince la palma su tutte le altre bancarelle. Devo scaricare le foto, così se un giorno venite a farvi una gita a Bangkok, non vi dimenticate di andare a Chinatown. Non ho ancora capito come mai, ma spesso i turisti che vengono qui non ci vanno, né lì, né nelle due Little India che ci sono. A me i quartieri popolati dalle varie minoranze piacciono un sacco.

E poi settimana scorsa, per la prima volta, ho attraversato il fiume...

Il fiume, appunto. Chao Phraya, se ve lo state chiedendo...
e sono finita in una libreria-caffè a gestione thai, ma intitolata a Voltaire, dato che si chiama Candide. Questi di Candide hanno un bel giardino, 


fanno ottimi caffè, vendono cartoline fatte a mano, e solo libri in thailandese. Traduzioni, spesso, ma in thai, e basta, che in un certo senso me li rendono simpatici, perché non cercano di accontentare tutti. Tanto di librerie che vendono roba in inglese ce ne sono già un fottio. E vedete che bei libri hanno?

L'immancabile Haruki-san.
E anche cose ancora più entusiasmanti, se siete me, vi manca un poco l'Europa/l'Italia, e un pomeriggio qualsiasi a spasso per Bangkok incappate in questo libro: 

Antò!!
Cioè: io Sostiene Pereira lo adoro. E' bellissimo, fantastico. L'ho letto velocissima senza sapere bene cosa mi aspettava, che quando hanno fatto il film con Mastroianni ero una sbarbata. E' un libro stupendo, e ora ho visto che ci sono pure tre gatti che se lo leggono qui in Thailandia. Sembravo la Sofia Loren quando ha premiato Robbèèèèèè! alla notte degli Oscar 1997.
Si vede che non ho passato molto tempo a casa mia, nell'ultimo anno e mezzo.

Bene, insomma... Questa è la mia vita bangkokiana, al momento. Lavoro con dei bei nanerottoli thai e giapponesi dal lunedì al venerdì, mi sveglio alle sei del mattino che il cortile di Melrose Place pare una giungla, torno che sembra di camminare in un asciugacapelli gigante (sta iniziando la stagione calda), prendo il mototaxi troppe volte al giorno, perché purtroppo camminare a Bangkok spesso non è piacevole neanche se sei una camminatrice urbana come me, e faccio yoga. 

Ah, lo yoga. 
Ho trovato una splendida maestra di yoga franco-indonesiana. Che adoro molto. E che sta per lasciare Bangkok, rendendo me inconsolabile, perché mi piace quanto il mio maestro viennese. Cioè tantissimo. Che non è facile per me, o per nessuno, trovare un maestro di yoga che ti piaccia così tanto.
E poi, tramite il Community Yoga, che non è una scuola di fighetti, ma una rarissima cosa di fricchettoni che funziona a donazione, ho anche incontrato le prime tre donnole con cui potrei diventare amica. Una portoghese, una messico-californiana e una, udite udite, turca. 

Ora vi lascio e vado a dormire. Che domani torno al lavoro, e mi sento già male, perché non sono certa di essermi ancora del tutto ripresa. 

Vi lascio con un'altra diapositiva di al di là del fiume...


Nonché quella di un mostro marino scappato dal parco di Lumphini, probabilmente sfrattato da quelli lì delle proteste pacifiche con le granate, e che ora vive su un sasso vicino all'ambasciata portoghese.