Pubblico questo post a Taipei, Taiwan. Sono stata sveglia 24 ore di fila per superare il jet-lag, uscita dall'aeroporto a Shanghai, dopo essere stata una delle sole quattro persone a mangiare vegetariano in un aereo gigante, tentativo di detox post-Sudamerica: gli altri tre erano M, e due monaci buddisti, la cui vista al check-in mi ha entusiasmato in modo idiota. Comunque, a Shanghai ho:


*visto un vecchietto camminare all'indietro, e M mi ha spiegato che è un esercizio di qi gong per sconfiggere l'avanzare dell'età
*visto 4 persone camminare in pigiama per strada
*mangiato una zuppa gigante di alghe
*fatto colazione con i cracker alle alghe
*visto cibi preparati nel wok in strada che mi hanno fatto rimpiangere di dover correre all'aeroporto. 

Ma di Asia parlerò un bel po', nei prossimi mesi, quindi ecco un resoconto dei buffi giorni americani. 

Come sapete, nelle ultime settimane sono andata due volte negli USA, prevalentemente per cambiare voli, ma dato che ero già lì, ho deciso di restare qualche giorno. Primo soggiorno a Boca Raton, Florida, secondo nel cuore di Los Angeles, California. 

Al controllo passaporti di Fort Lauderdale, Florida. Arrivo, e finisco al bancone occupato da un agente di colore, bello in carne, con i baffi. Mi saluta dicendomi, 

Buongiorno signorina, come sta oggi?
Io gli rispondo, bene, grazie, e lei?
Risposta dell'agente: bene, grazie. Io sto sempre bene, 
mi dice con faccia sorniona e voce rilassata.

Ovviamente, siccome siamo in viaggio da nove mesi e i nostri zaini sono stati sul fondo di autobus, camion, barche, traghetti e automobili, alle narici di un cane, puzzano. Quindi, appena passiamo oltre il bancone, il simpatico labrador-poliziotto ci annusa subito, e finiamo alla fila in dogana, dove un agente bassetto, latino, ci fa aprire gli zaini, sempre molto gentile, e si esalta quando scopre che capiamo lo spagnolo, per poi lasciarci andare piuttosto rapidamene, augurandoci una buona giornata. 
Fuori dall'aeroporto più rapidamente che a Malpensa, non che ci voglia molto. 

All'aeroporto di Los Angeles, famoso per i suoi controlli di sicurezza piuttoto draconiani, in fila aspettiamo, e guardiamo gli agenti muoversi e fare il loro lavoro. Al bancone a sinistra, un nero piuttosto giovane, rapido e gentile. Al bancone in mezzo, un bianco, grande e grosso, capelli sale e pepe e fare piuttosto intimidatorio, da ex-militare, abbastanza brusco. Al bancone a sinistra, un asiatico, che si scopre che è cinese nel momento in cui arriva un collega, e i due iniziano a chiaccherare in mandarino. 
Noi finiamo da quello che sembra un ex-soldato, e vediamo che ha una targhetta con un nome russo. Quando inizia a parlare, scopriamo anche che ha un forte accento russo, sembra il doppiaggio di Arnold Schwarznegger in Danko, per farvi capire il genere. 
Ci prende le impronte digitali, e intanto discute di strategie di borsa col collega cinese. Riporto la conversazione, e per favore, nella vostra mente leggetela con accento russo, altrimenti non funziona. 

Agente russo: se vuoi diventare ricco, caro mio, devi ascoltare me!
M: anche io voglio diventare ricco. Consigli?
Agente russo: no, ti devi trasferire qua, zio. Devi vivere in America, altrimenti niente. (Anche lui col sorriso sornione. Se non sono gigioni, non li assumono, o forse noi tiriamo fuori il lato gigione della gente?)

Insomma, tra tutto, Florida e California, abbiamo passato una settimana negli USA. Erano anni che non ci venivo, l'ultima volta ero stata a New York, poco tempo prima dell'11/9. 
Prima di quello, prima di Bush, prima delle guerre, prima di Not in My Name, prima di Guantanamo, prima delle torture, delle occupazioni illegali, prima delle leggi paranoiche, prima di tutto questo, negli USA c'ero stata varie volte, con i miei genitori, poi per un amore, e poi da sola, forse nel mio unico viaggio fatto completamente da sola. 

È un paese imperfetto, è un paese pieno di gente ignorante, superficiale, che non esce mai da lì (ma pensateci bene: quelli hanno un continente intero, a disposizione, da esplorare prima di andare a vederne altri), però a me diverte. Mi diverto sempre, quando vengo qui, mi divertono la leggerezza e la gentilezza delle persone, nei contatti umani di tutti i giorni. Mi diverte che tutti queste persone, di colori, religioni e provenienze diverse, si considerino americani.  Ovviamente mi inquieta sapere che molti di loro portano armi in borsa o in tasca, ciononostante riesce ad essere un posto incredibilmente piacevole per un visitatore occasionale, ammesso che si abbia un'auto, o come nel mio caso, si scelga di stare in un posto dove si può camminare e muoversi a piedi, cosa non sempre facile.

A Boca Raton ho visto l'America suburbana, pingue e benestante, durante il Memorial Weekend, ho guardato come passano una festa nazionale gli statunitensi (facendo grigliate, passeggiando nei centri commerciali all'aperto, mangiando un sacco e nella piscina del loro albergo, riassumendo.) 

A L.A. ci ha ospitato un'amica sino-americana di M, ed è stato interessante vivere la città con lei, che è disegnatrice di moda e artista, che vive lì da sedici anni e che nonostante ciò ha ancora l'accento cinese, e vive nel suo mondo, riuscendo a perdersi irrimediabilmente ogni volta che esce in auto, anche se la città è una griglia regolare. Abbiamo scoperto un sacco di punti in comune tra la mamma italiana e quella cinese (e una passione comune per le cose spiraliformi. Ora ho due nuove collane, fatte a mano da Bibi.) Adorabile donna!

La città è migliorata molto rispetto alla mia prima visita, io me la ricordavo come un inferno di smog, lamiere e caluria, e invece ora è un po' più vivibile, piacevole, perché in fin dei conti più che una metropoli, L.A. è un agglomerato di cittadine dal carattere differente, dalle spiagge chic, un poco yuppie, di Santa Monica, al centro, con i suoi palazzi art déco, miracolosamente sopravvissuti alla foga rinnovatrice di urbanisti e palazzinari losangelini, al circo permanente di Hollywood Boulevard, a dieci minuti a piedi da casa della nostra amica.

Il posto più buffo, in assoluto, è Venice Beach: gente mezza matta e seminuda tutt'intorno, negozi che vendono la "marijuana medica" da tutte le parti, ma soprattutto, arte di strada diffusa, che a me piace sempre. Molti artigiani vendevano spazzatura, ma molti di loro facevano cose carine, colorate. Un'artista afroamericana, con una splendida testa di dreadlock e l'ombretto verde, mi ha regalato un anello di rame come protezione per i miei  viaggi senza che io chiedessi nulla, solo per l'entusiasmo mostrato nei confronti delle sue creazioni. A Venice Beach c'è addirittura il parrucchiere senza prezzi fissi, karma-friendly, come dice lui: paghi quanto vuoi, e quanto puoi. Loro si fidano. 

Che dire, quando non sono impegnati in brutture oltre confine, come origliare i cazzi altrui tutto il giorno, e tutte le cose negative che già conosciamo e che non elencherò, perché di polemiche antiamericane su internet ce ne sono già abbastanza, a me questo paese diverte e mi piace, come turista. 
Se M ed io fossimo meno fricchettoni e patentemuniti,  mi piacerebbe passare una vacanza in giro per i deserti dell'ovest, che ho visto da bambina con i miei, ma dove tornerei volentieri; o esplorare quelle distese di nulla, ricoperte di mais (e probabilmente infestate di gente spaventosa, ma dettagli) di cui parla Bill Bryson nel suo libro America Perduta. L'ho letto in Ecuador e mi ha incuriosito moltissimo. È che mi piacciono i paesaggi vuoti, e cogli orizzonti grandi, che siano mare o deserto.
Anzi, se avessero più di dieci giorni di vacanza all'anno, ci penserei pure, a viverci per un annetto o poco più. Ma non è così, quindi niene.

Smetto qui, con le elucubrazioni americane. Sono su un volo China Eastern, circondata da cinesi che dormono, dal primo minuto di volo, come molti asiatici (e come molti sudamericani, ora lo so!) Le assistenti di volo hanno spento tutto, e io ora cercherò di farmi venire sonno, così magari avrò l'energia per uscire dall'aeroporto per quelle 18 ore, e vedere Shanghai. 


Scrivo queste parole in aereo, offline, mentre ascolto un podcast sul chamamé, musica della "Mesopotamia" argentina, insieme al Paraguay e all'Uruguay il mio primo contatto con il Sudamerica. Questa parte del viaggio si è conclusa qualche ora fa, partendo da Città del Messico per Los Angeles, dove pubblicherò questo post.

Sono andata in Sudamerica sapendone poco, che è poi il modo migliore di avvicinarsi ad un nuovo paese, o a una nuova parte del mondo. Questi chamamé che sto ascoltando mi hanno fatto pensare alla prima parte del viaggio, nel Cono Sur, che è tuttora la parte del continente che mi è più rimasta nel  cuore - insieme al Messico.

Quindi, insomma, io e il mondo latino siamo amici, ora. Nel senso che ci conosciamo meglio, perché ho imparato un milione di cose, in questi mesi. 

Ho conosciuto nuove musiche, come appunto il chamamé o il candombe, che mi piacciono, musiche che mi piacciono meno, come il reggaeton o la salsa, e musiche che non mi piacevano, ma che alla fine ho apprezzato, come le cumbie vecchio stile, o addirittura alcune cose di rumba, pensate voi. Ho conosciuto nuovi strumenti e mi sono innamorata del loro suono, come il bandoneón, nel tango e nel candombe, o il charango, il mandolino delle Ande, ad esempio. E poi le canzoni della costa ecuadoriana, o quelle colombiane, che magari non sono il mio genere, ma che di certo hanno proprietà antidepressive, che andrebbero ascoltate nell'inverno europeo, per superarlo.

Ho imparato nuovi nomi, quelli delle popolazioni indigene, diseredate e fregate dai vari stati nazionali che ho visitato, ma in certi casi sorprendentemente vitali.
A cominciare dal mondo Guaraní, diviso tra Argentina e Paraguay, i guaraní, che dobbiamo ringraziare per il mate e il tereré, con la loro lingua affascinante e piena di vocali, nelle umide e bollenti selve nel "dito" nord-est dell'Argentina. Per continuare con i Mapuche, i ribelli di Cile ed Argentina, con i loro gioielli d'argento di fattura fine e modernissima, e le loro lotte per l'autonomia, in corso tuttora. E poi gli indigeni delle Ande boliviane, che vivono in una miseria gelida, quasi sempre sopra i 3000m, e che ti scrutano silenziosi quando passi nei loro villaggi, perché sei uno straniero bianco, quindi qualcuno di cui non fidarsi. 
E poi le tribù amazzoniche, che inizi a vedere in Perú, e che ti accompagnano da lì in Ecuador, e poi in Colombia, con le loro maschere variopinte, le tradizioni di ayahuasca e allucinogeni assortiti, lo sciamanesimo, ed i loro copricapi di piume dai colori saturi, forti. E, anche se native non sono, le culture africane in Uruguay, Colombia, Perù ed Ecuador, che hanno prodotto alcuni dei tipi di musica che preferisco.

Ho incontrato un catalogo umano straordinario di persone, che venivano da paesi e mondi diversi, tutti accomunati dalla lingua, che non mi ha mai fatto impazzire, ma che nella sua declinazione del Sudamerica, a seconda delle zone, ha iniziato a piacermi, e molto. Tanto che ora, quando parlo spagnolo, mi sento a casa, come quando parlo francese (la sensazione di cousinade tra latini si fa sempre più forte, e non vedo l'ora di imparare il portoghese.)

Il Messico merita un discorso a parte, perché Sudamerica non è, ma Latinoamerica sì. Mi ha incantato, il Messico, mi piace per gli stessi motivi del Perù (l'archeologia, la storia, la cultura, la varietà di paesaggi), con la differenza che lì il clima è molto migliore, fa caldo, le coste sono due (Caraibi e Pacifico), e che rispetto al Perù, viaggiare in Messico è una passeggiata, dato che in genere non devi preoccuparti che il tassista non ti rapini, o che il tuo autobus cada in un crepaccio, entrambe cose tristemente possibili e probabili in Perù, anche se ci stanno lavorando sopra alla grande. L'arte visuale messicana è quella che mi ha affascinato di più, e l'artigianato tessile è tra quelli di migliore fattura visti in questi nove mesi. 

Ho visto paesaggi di ogni tipo o quasi, la selva verde e la terra rossa del nordest argentino-Paraguay, il gelido altipiano della Bolivia, dove in estate fa 10C, le montagne lunari, rosse e verdi del nord argentino o del Messico, le coste scoscese, verdi e magnifiche del Cile, e quelle dolci e sabbiose dell'Uruguay, i deserti rocciosi al confine tra Cile ed Argentina, a 4000m, quello sabbioso in Perù, che appare come una splendida bolla di caldo poco dopo la fine delle Ande, la selva dell'Ecuador, dove ho passato del tempo in una fattoria di Hare Krishna, il mare cristallino, caldo ed accogliente,  della costa caraibica in Colombia, e quello limpido e gelido del Cile, il polveroso, nebbioso e roccioso nord del Perù, che sembra una provincia della Luna. Mi sono sentita alla fine del mondo, sulla costa a sud di Santiago, Cile, sola con M ed un elefante marino, su una spiaggia lunga chilometri e chilometri, senza case, solo con l'ostello-casupola di Nico, il surfista acrobata cileno.

Ho imparato a bere il mate e il tereré, le mie due scoperte principali del viaggio, quanto a bevande. Ho bevuto espressi praticamente italiani in Argentina, caffè filtrato che resuscita i morti in Colombia (farsi un espresso con quel caffè potrebbe essere mortale, credo), in Messico ho bevuto ottimo caffè, dalla consistenza vellutata, e bevuto la cioccolata calda migliore della mia vita. In Ecuador e Messico, ho mangiato cioccolato amaro tra i migliori che abbia mai provato.

Sono arrivata perplessa e preoccupata di essere derubata o ferita nel tentativo di derubarmi, o che so io, per tutto quello che si sente di America Latina come continente violento (e lo è, nel 2012 è stato di nuovo il continente con più omicidi ed assalti violenti in rapporto alla popolazione, secondo El País.) 
Ora parto, nove mesi dopo, con un bagaglio di nuovi stimoli (musicali, alimentari, letterari, cioè quelli che contano), una lingua nuova in tasca, e pezzetti di cuore sparsi tra Argentina, Cile, Uruguay, Perù e Messico, e tanta voglia di tornare quasi in ogni paese che ho visitato, con l'eccezione ella Bolivia, forse. 

In tutto ciò, ci tengo a dirlo visto quel che si sente del viaggiare da queste parti, ad M e me non è successo niente. Niente di niente, anche perché stiamo attenti, forse, e sempre all'erta (e non mi mancherà sentire di doverlo fare, questo no), ma siamo partiti con un computer, due kindle, tre carte di credito, tre di debito, e per ora abbiamo ancora tutto. Non mi hanno scippata, non mi hanno aperto la borsa con un coltello, non mi  hanno minacciata in nessun modo, i tassisti mi hanno fregato solo raramente. 

Questo continente mi ha arricchito enormemente, umanamente, per il semplice fatto di poter parlare con la gente, starla a sentire, che sia la signora che fa i succhi in spiaggia in Cile, lo studente universitario e il meccanico in Perú, il grafico in Colombia, l'artigiano in Argentina, l'informatico in Uruguay, il monaco ecuadoriano, o il sindacalista cileno. Grazie a tutti loro, anche se non leggeranno mai questo post. Grazie di cuore. Sono ufficialmente innamorata delle vostre contrade.

Dopo questi pochi giorni a Los Angeles, andremo a Taipei via Shanghai, da lì poi in Vietnam, via Hong Kong. Visiterò quindi, finalmente, il mondo cinese di cui sono così curiosa da che sto con M e conosco i suoi amici, tutti impregnati di Cina, dato che quella lingua e cultura hanno studiato per anni. Sono curiosissima e felice di essere fuori dall'Occidente, finalmente... Ma so che la barriera linguistica, completamente abbattuta nel mondo ispanico, a suon di mate, chiacchiere, birre e caffè condivisi, un poco mi peserà. Tornerò a poter parlare solo con le persone più colte, quelle che hanno potuto imparare l'inglese. 

Questo video è di un gruppo hip hop di Puerto Rico, Calle 13, insieme a Susana Baca (Perù), María Rita (Brasile, credo) e Totó La Momposia (Colombia). L'ho scoperta relativamente tardi e non è tra le mie preferite, ma il video è magnifico per come mostra tutte le facce della Latinoamerica, quelle che ho conosciuto, e quelle che devo ancora conoscere. Ritornerò.

Sono in Messico, e sto passando un sacco di tempo su internet perché sono malaticcia, ma anche perché mi stanno distruggendo Istanbul, e la Turchia tutta, quella che io amo, quella dove ho vissuto. Quindi, sono sì a Oaxaca, ma la mia testa è ossessivamente con loro. 

Avrei tante belle cose da raccontarvi del Messico, ma sono due settimane che ogni volta che vado su internet finisco a leggere dei turchi. Che adesso, sulla schiena, ho anche un nuovo tatuaggio, che include anche la loro stella e mezzaluna, nascoste tra altre cose perché non sembri islamico, perché io religiosa non sono. Fatto credo il giorno prima che iniziasse tutto questo casino, il nuovo tatuaggio, ironicamente.

Mi ricordo delle discussioni avute con T., accese, strillate, dove io da europea dicevo che la libertà di religione è comunque importante, che il secolarismo in Turchia l'hanno spinto troppo in là e questo gli tornerà indietro come un boomerang, se non si ammorbidiscono un attimo, e lui che gridava e mi diceva che no, l'AKP vuole prendere la Turchia, e farne l'Iran, solo molto lentamente, e io che gli dicevo, no, sei paranoico, cazzo. E invece avevamo entrambi ragione. Perché il CHP ha spinto troppo per troppi anni, e adesso gli altri si stanno prendendo la rivincita.

A parte questo piccolo malore fisico, sono in Messico e sto bene, ma sono angosciata. Sono lontana chilometri e chilometri da lì, e quei pochi rimasti a Istanbul della gente che conosco, i turchi, non so perché ma ho la sensazione che potrebbero proprio essere in mezzo al carnaio. Una confermata su Twitter, gli altri, non lo so.

Non sono neanche tanto sorpresa, di quello che sta succedendo. L'aveva detto, qualche giorno fa, Erdoğan, che avrebbe rimosso i terroristi, come li chiama lui. Quindi, non sono sorpresa. Sono solo presa malissimo, perché tutto questo conferma la sensazione che ho avuto a Istanbul l'ultima volta, poco meno di un anno fa. Cioè che Tayyip e compagnia bella stanno cambiando la faccia della città, in una direzione che non mi piace affatto, io l'avevo notato a Beyoğlu, ma evidentemente non è solo una cosa di politica locale. 

E poi, un sacco di giornalisti stranieri hanno detto, all'inizio, oh, tutte queste storie per un parchetto rachitico in fondo alla Istiklal... E' perché non ci hanno vissuto. Quel parco è un'oasi di pace nel casino di Taksim, dove puoi sederti all'ombra di un platano, ordinare un tè per poche lire e goderti una vista spettacolare, perché è in cima alla collina. Quindi, fosse stato anche solo per il parco, credo che per tutti gli abitanti di Beyoğlu, e non solo, valga la pena combattere per proteggerlo. Ma ormai, siamo oltre il parco Gezi.

E' che sinceramente non mi viene, di copiare troppe cose sulla mia pagina fb, o su twitter. Mi sento una cogliona clicktivista. Non so cosa fare, se non leggere, e cercare di restare informata e cosciente di quella che stanno facendo a una delle città che è casa, perché l'avevo scelta, e per questo rimarrà nel mio cuore per sempre. Mi sento un nodo in gola, il cuore pesante, e pure un po' idiota, perché non ha senso sentirsi così, dato che non ci posso fare una sega, da Oaxaca, Messico. 

http://t24.com.tr


Sapete che mi chiedo sempre come mai gli italiani non viaggiano? Non lo sapete. Però io me lo chiedo. Ho incontrato alcuni italiani in questo viaggio, soprattutto in Argentina, Uruguay ed Ecuador, ma che vivono lì. Una coppia in Cile. Poi, il deserto.

Ma ho capito, ora. Ah, sì, che ho capito, dove stanno gli italiani che viaggiano e non vanno dalla nonna in Sicilia o a Punta Ala o a Riccione (anche a me l'Italia piace, eh, però mi sembra che la curiosità culturale non sia parte del patrimonio nazionale.)

Vanno tutti in Messico, gli italiani più originali! Alcuni pure senza pacchetto viaggio, e una marea a viverci. Strapieno! Ma solo io non ero al corrente dell'amore tra italiani e Messico (almeno del sud?)
Al momento sono nella penisola Yucatan, Messico. Sono arrivata qualche giorno fa, e dopo pochi giorni ho già deciso che il paese mi piace. Mi piace da matti il cibo, semplice e a buon mercato, mi piacciono le persone, che almeno qui al sud sono amichevoli ed aperte, mi piacciono i costumi tradizionali che hanno addosso le signore di qui, l'architettura, che è antica e abbastanza ben conservata. Sono bendisposta, nei confronti del Messico, per ora. È anche abbastanza rilassante, dopo quasi 8 mesi di Sudamerica, essere in un posto abbastanza turistico, così turistico che non hai la sensazione di doverti in continuazione guardare le spalle.

Pr certi versi mi è venuta una specie di testa sudamericana, dalla Bolivia in poi ho vissuto sempre con la guardia alzata, in giro per le strade, quindi ora non mi sembra vero di potermi rilassare un attimo. Non dico che il Messico sia perfetto, ma sino ad ora ho passato il mio tempo qui in posti piccoli, e molto rilassanti. Un bel cambio, non doversi preoccupare se il tassista ha intenzione di derubarti o meno, se quel quartiere è tranquillo e sicuro o meno, è bello sentire di non dover nascondere i soldi nel reggiseno quando vai a prelevare, e che puoi prelevare anche di sera, e che non devi forzare il tuo  compagno a farti da cane da guardia ogni volta. Bello.

Campeche, Wikimedia
Tra Colombia e Messico, ho anche passato tre divertentissimi giorni in Florida. È stato, innanzitutto, un cambio pazzesco passare dal mondo ispanico a quello anglofono in poche ore d'aereo, però una sensazione divertente. Negli USA ci avevo passato un po' di tempo quando avevo 19 anni, l'ultima volta che ci ero andata era stato nell'agosto del 2001. Bush era presidente, l'11/9 non era ancora successo, e io ero una sbarbata curiosa.
È stato divertente tornare in quel paese, che in tanti demonizzano senza conoscerlo. Di certo ti istupidisce a suon di consumismo - entrare in un supermercato nordamericano dopo mesi di Latinoamerica è stato uno shock culturale bizzarro. Avevo voglia di comprare tutto, ecco. Io, che non è che di solito sia una comprona. Magari scrivo un post anche su quei pochi giorni americani, ne verranno altri tre sulla via di Taiwan, quindi magari unifico tutto.

Boca Raton, Wikimedia

Una cosa che ho fatto, in Florida, è stato comprarmi un cosetto per scrivere. Il nostro computer del pleistocene dopo mesi di altitudine a più di 3000m di quota, e mesi di super lavoro, stava cedendo. Quindi, ora, ho un cosetto tutto mio e spero che non dover andare per internet cafè mi aiuti ad aggiornare il blog in maniera più costante. 

Ora vado a letto e riposo le stanche membra. A presto, su questi schermi. 
Come sempre in ritardo, volevo scrivere due parole sulla Colombia.

Devo premettere che per la Colombia ho avuto a  disposizione molto meno tempo che per altri paesi, se si considera quanto è grande. Purtroppo avevo un volo prenotato per fine maggio, e questo mi ha fatto perdere in flessibilità e possibilità di aggiungere o togliere destinazioni, o restare più tempo in luoghi che mi piacevano. Sento di conoscere la Colombia meno di altri paesi che ho visitato, tra le altre cose anche perché i trasporti in Colombia sono assurdi. Non è inusuale pagare meno per un biglietto aereo che per un autobus, un retaggio di tempi più violenti forse, di certo ha danneggiato la nostra impresa. Dopo aver percorso il Sudamerica dall'Uruguay fino a Medellin, Colombia, senza mai prendere aerei - neanche in posti come il Perù, montuosi, freddi e dalle strade pericolose, dove avrebbe avuto senso - in Colombia abbiamo ceduto, e abbiamo preso l'aereo per ben due tratte, quindi ho percorso il paese molto meno che in altri casi. Ahimè. Considerato lo stato delle strade nel montuoso sud, dove siamo arrivati, forse è stato meglio così. 

Arrivare dal sud, dal tranquillo Ecuador, è stato uno shock, perché il sud della Colombia, credo, è una delle zone più problematiche, tuttora, per quanto concerne FARC e guerriglia assortite. Conseguenza  di ciò è che sembra di viaggiare in una zona di guerra, o quanto meno occupata: soldati ogni pochi metri nei villaggi, con fucili e mitragliatrici piuttosto enormi, e posti di blocco frequenti. Arrivare a Cali è stata la parte più bizzarra, dato che la città si trova nella Valle del Cauca, una delle zone più pericolose del paese, sembra. Quindi hai un cartello che dice "benvenuti nella Valle del Cauca", e subito di fianco una specie di fortino di sacchi di sabbia, con una fessura per sparare, e uno dei soldati di cui sopra di guardia. Non proprio una scena rassicurante. 

Cali mi è piaciuta molto, nonostante la tensione di fondo che si sente in alcune  zone - a quanto pare, è l'unica città dove le FARC hanno attività urbana. Se si sta nella zona di San Antonio, che è coloniale, relativamente tranquilla e molto attiva, almeno nei weekend,  è un'esperienza piacevole, perché permette di scoprire una città colombiana che non vive di solo turismo, come ad esempio Cartagena, che è bellissima, ma quasi troppo, ed è infestata di turisti da crociera, niente contro, ma sono davvero tanti.

San Antonio, Cali - foto Stink Fish flickr.com
Di Medellin dirò solo che, a mio avviso, è sopravvalutata. Non è bella, è interessante per la sua storia, e per la reazione ai problemi avuti con Escobar: ora è vitale, tranquilla per gli standard colombiani, e soprattutto dà importanza allo spazio pubblico, dopo aver vissuto sotto assedio per anni. Molte delle cose da fare lì, però, sono a pagamento, e questo non mi è piaciuto. È anche piena di turisti imbecilli e semi alcolizzati, destino che condivide con Cartagena, di cui ho già scritto (è architettonicamente magnifica). Ah, ultima cosa su Medellin: l'accento più piacevole del paese, sembra che cantino quando parlano.

Medellin - Wikimedia
La costa ad est di Cartagena mi è piaciuta, Santa Marta è come una Cartagena con meno navi da crociera, certo il centro è più piccolo, ma è, come Cali, una città normale, cosa che a me interessa. Purtroppo è anche il posto dove, una notte, chiacchierando sulle scale dell'ostello coi colombiani dello staff, ho assistito da lontano alla mia prima tentata rapina a mano armata. Sventata da un passane sui cinquanta, con la polo e la panza, e anche una pistola nel borsello. La quasi vittima, una giovane donna che tornava a casa con una borsetta alle undici di sera. Commento di Miguel dello staff: colpa sua. Non dovrebbe andare in giro da sola a quest'ora. Questa è la logica colombiana e sudamericana, logica distruttiva, come disse Pablo, incontrato a Medellin: finché si continua ad incolpare la vittima, in Colombia non cambierà molto. E ha ragione, dato che io sono una grande fan delle città dove si può camminare tranquillamente alle undici sera - Vienna è una di queste.

Santa Marta, Wikimedia
Purtroppo Bogotà ha avuto poco spazio, nessuno dei due aveva voglia di tornare nelle montagne e nel freddo, ma me ne sono un poco pentita. Bogotà ha un sacco di cultura aperta e gratuita a disposizione, nonché una delle librerie migliori viste in Sudamerica (quella del centro culturale Gabriel García Márquez.) Ha anche un sacco di brutti musi che girano per strada, dato che la zona turistica coincide con quella dei tossici, quindi noi la sera siamo usciti poco e abbiamo passeggiato di giorno, cosa che ti permette anche di vedere l'arte di strada bellissima - pensosa, divertente, sarcastica - che adorna i muri della città. A proposito, in generale, se vi piace l'arte di strada, la Colombia e' interessante assai. 

Quindi, per concludere, mi è piaciuta la Colombia, ma non è stato ammore come in Cile, Uruguay, o, devo dire, Messico, mi sa. È un paese complicato e talvolta molto sessista, il più machista di quelli visitati sino ad ora. È l'unico posto dove (come in Italia!) usano la gnocca nuda per venderti di tutto, dal rossetto alla brugola. Un'altra cosa che non mi ha convinto è che usano l'orgoglio nazionale e la bandiera per tutto: per le poste, che magari è normale, ma anche per il gelato, per i vestiti, per tutto, li senti sempre parlare di quanto è phiga la Colombia. Ora, sì, ma come tanti altri  paesi, checcazzo. Con l'Asburgico abbiamo pensato che forse è una reazione agli anni di violenza, una specie di modo di darsi la carica, però se sei uno straniero, due palle! Sono quasi peggio degli argentini o dei cileni, ed è tutto dire. 

Mi sono piaciute molto alcune cose relative al cibo: abbiamo sempre cucinato, dato che il paese e' caro, ma frutta, verdura, succhi ed arepas sono cose che ora, qui in Messico, un pochetto mi mancano.