Ci volevo andare da quando ho letto di cos'era la Birmania, grazie al solito prof di geografia che ho lodato più volte su questo blog. Ci volevo andare da tanto, ma tutti dicevano di come era meglio non andarci, pure la Aung San Suu Kyi diceva: niet. Io non avevo tanti soldi da spendere, e arrivare qui dall'Europa costa tanto, perché devi prima andare in Thailandia, e da lì prendere un aereo per qui. Quindi è l'ultimo paese del sud-est asiatico continentale dove arrivo, secondo me in corner prima che diventi qualcosa di molto differente.

Ora ci sono. Ieri ci sono arrivata, dopo dieci ore su una mulattiera di ciottoli, in arrivo dal confine thailandese che hanno aperto solo a inizio settembre. Con i capelli incrostati e marroni, la maglietta marroncina anche lei. In auto con un pazzo furente che amava superare le auto che stavano già superando un camion, in curva, su una mulattiera, con un abisso sotto di noi. Noi in auto con un undicenne birmano e mamma sua, un altro distinto signore di qui, più un poverocristo ubriaco fradicio, che abbiamo raccattato dopo che è caduto dal motorino, con le foglie nei capelli e sbucciature su tutto il corpo. Era sbronzo, o forse strafatto, non lo so, e mentre io tentavo di tenerlo dritto sul sedile perché non si scassasse il cranio contro il cruscotto, gli altri passeggeri locali lo deridevano, dicendomi, ma non ti preoccupare, che sta benissimo! Come spesso capita, qui in Asia si vede il darwinismo sociale applicato.
Non è un bel vedere. 
Credo che il loro ragionamento fosse: se va in motorino sbronzo è idiota, ed è già fortunato che l'abbiamo tirato su! Tu, donna pallida, ti preoccupi troppo, starà benissimo. (Secondo me no. Stava male, aveva l'aria di uno che ha battuto la testa e loro lo sballottavano sulla strada di montagna. Magari sono io all'antica, ma mi sembra una pessima idea. Mi chiedo ancora che fine abbia fatto quel poveraccio, che avrà avuto ventidue, ventitré anni al massimo.)
Comunque.

I paesaggi: magnifici.
La gente: dolcissima, quando non hai appena avuto un incidente che secondo loro è solo colpa tua.
Il cibo: gustosissimo, a prezzi modici, con tra un euro e due euro puoi comprarti un pasto che ha questo aspetto:


E non è solo economico... È pure buonissimo!

Nelle mie prime 24 ore in Birmania, un autista ci ha regalato il suo cibo; ho visto un ragazzo dormire sulla sella di uno scooter legato al retro di un camion sulla mulattiera di cui sopra; una bambina ci ha regalato venti banane; ho conosciuto due ragazzi locali; come al solito ho detto "camminiamo giù per quella via", per poi finire in un piccolo paesino dove tutti ci salutavano, per poi essere invitati per merenda da una famiglia sul suo portico, ché oggi è domenica e tutti avevano tempo di fissarci, salutarci, e insegnarci il birmano mentre si bevevano la loro unica birra settimanale (ciao si dice mingalaba, ad esempio.)

Le facce sono un misto di sud-est asiatico, India e Cina, sono visi belli e attraenti, come in Cambogia (di cui scriverò presto.) Ci sono due cose che rendono la Birmania diversa dai suoi vicini: gli uomini e le donne vestono con le longyi, che sono come dei parei, a quadretti o righe per gli uomini, a fiori per le donne. E tutti, grandi e piccoli, uomini e donne e addirittura bimbi di pochi mesi, si coprono il viso con la corteccia di thanaka, un albero locale, corteccia che ha due funzioni: proteggere la pelle dal sole, e decorarti e farti bello. Un esempio di adorabile nana birmana con corteccia di thanaka: 


Ecco, insomma, questo post scritto di impulso per non finire a fare la pigrona come al solito. Per molte cose i birmani ricordano i cambogiani... Solo, più miti e senza la ridarella cronica degli khmer (ridarella che a me piace un casino, ci tengo a precisare. Devo scrivervi della Cambogia, che è un posto bello, tragico e buffo, tutto insieme.)
Ora vado, sto ancora tentando di digerire il "brunch" ingerito oggi alle undici circa. Sono le ore 19:17. Una cosa che ho imparato in Birmania è: non tentare di finire il tuo piatto, perché arriverà un birmano, felice di come ti sei scofanato il suo cibo, che riempirà nuovamente il tuo piatto. E se lo finisci, lo riempirà di nuovo. E così via... 
Vediamo come va quando arrivo in luoghi più affollati di turisti... Per ora, sono piuttosto conquistata. 
Sono settimane che non scrivo niente: chiedo scusa. Sono in fase di riflessione sul futuro post-gita, e questo si mangia un sacco delle mie energie e della mia voglia di scrivere.
Ma sto bene. Tra pochi giorni vado in Birmania, via terra, con il confine aperto da pochi mesi e quindi per una volta sarò tra i primi a fare qualcosa.
Vi scrivo da una houseboat sul fiume Kwai. Sono in una cittadina sonnolenta, sul fiume, vicino al famoso ponte del film omonimo. Oggi ho fatto un corso di cucina vegetariana thai, con una cuoca sorridente, adorabile e con una panzotta di sette mesi. Lei così piccola che ti viene da dire: ma come lo fai lo spazio per un nano, lì?? Eh???
Sto bene, sono contenta, ho scoperto che amo le sonnolente cittadine fluviali (ho finito col passare otto giorni a fare assolutamente nulla in un posto del genere già in Cambogia. Dieci giorni dopo, faccio lo stesso in Thailandia.)
Vi lascio con una diapositiva di quello che vedo dalla piattaforma che è anche la zona comune di questo piccolo ostello galleggiante.
Statemi bene... Presto un post sulla Cambogia, e sul perché dovreste andarci. È già scritto, ma devo scaricare le foto.

É un anno che sono partita.
Ce ne siamo accorti, l'Asburgico ed io, giusto qualche giorno fa, appunto perché quando sei in gita le date te le ricordi solo se c'è di mezzo un aereo, o un volo. 

Che dire: è volato, quest'anno.
Che dire: non è che abbia una voglia cocente di tornare ad avere una casa. Pensavo che l'avrei avuta, invece mi sono abituata a vivere con uno zaino di 50L come casa.
Che dire: pensavo che mi mancasse l'Europa, ma da quando sono in Asia mi manca meno, perché anche qui c'è varietà culturale e lingue che cambiano spesso, cosa che in Latinoamerica è monotona.

Pensavo che sarei morta di nostalgia degli amici, di alcuni, di una in particolare. Ma non è successo, perché gli italiani che ci tengono si fanno vivi, e gli stranieri so che si fanno vivi meno, ma che saranno pronti lì per me quando arrivo, e ogni tanto scrivono per rassicurarmi.
Perché sono meno chiacchiera e più distintivo, gli austriaci, e anche loro, che mi fanno sentire sempre come una specie di Pulcinella, sarò felice di rivederli. 
La mia unica amica italiana a Vienna, quella che è come una sorellina, quella la sento sempre. Per fortuna. Non come vorrebbe lei, su Skype, ma cerco di scrivere più che posso, e lei mi scrive, e chattiamo, e grazie internet che mi lasci essere vicina alla mia amica del cuore, che ha condiviso con me gioie e dolori e doloracci degli ultimi tre anni. Che io non lo so, com'è, avere una sorella, ma immagino che sia una cosa simile a quello che abbiamo Effe ed io. 
E gli italiani in Italia sono abituati a che vado e vengo: quelli che ci sono ancora, ci sono ancora perché ci tengono. 
Immagino che gli stimoli molteplici dell'essere in un nuovo posto ogni pochi giorni o ogni settimana aiutino a combattere la malinconia.

Il cibo italiano non mi manca. Mi piace, certo. Ho già l'acquolina in bocca, se penso al pranzo di Natale che mi aspetta, se penso all'amatriciana di mammà, o la pasta vellutata della nonna, con panna, funghi e vino rosso; ai panzerotti pugliesi di Luini in centro a Milano; ai salamini mignon che trova mio zio nelle sue scorribande in bici per le gastronomie di Milano; se penso al gorgonzola, al quartirolo ed al taleggio, al pecorino romano e a quello sardo, alla burrata che il lattaio fa arrivare fresca dalla Puglia solo una volta alla settimana; ai cioccolatini fondenti di Venci che mi compra zio per farmi piacere; alle lenticchie ed ai risotti di zia; alla pizza della Magolfa, che sono palestinesi e non italiani ma è bona e quindi a me piace assai; a una bruschetta fatta come dio comanda; al pane pugliese; al caffè macchiato piccolo e che costa poco (le brioche non mi mancano, perché i francesi le hanno lasciate in eredità a cambogiani e vietnamiti. E le fanno bbone.) Il gusto del vero cibo italiano, buoni ingredienti, pochi e di qualità, ovvio che mi piace.
Ma da che sono in Asia, sono così occupata a provare quello che i vari paesi mi piazzano sotto il naso, che non mi manca, davvero. Datemi un curry al giorno, che sia thai, khmer, o indiano, e io sono una donna felice. 

Sono abituata ad essere via da casa, dalla nonna, dalla mamma. Pensavo che non vederle ogni tre o quattro mesi mi avrebbe fatto stare molto male, ma per fortuna ci scriviamo tanto, e quindi sto bene. Mi piace, scrivere alla mamma e alla zia, magari continuerò a farlo in Europa, se avrò tempo ed energie. 

La nonna mi manca tanto, lei sì. Perché lei le mail non le legge, e fa fatica a parlare al telefono, con le linee del kadzo che ho qua, non mi sente bene neanche se strillo, e non ci viene bene la conversazione.
La nonna non vedo l'ora di rivederla e di spupazzarla, e lei sarà timida perché è una donna del nord, e quando la mia metà deRoma prende il sopravvento lei ride un po', timida, perché le sembra che esagero, e mi dice: sei tutta tuo padre. O tua nonna, l'altra, la nonna matta romana, se rompo troppo le scatole. È una donna quadrata, lei, quasi germanica, e il mio sbrodolare da mezza romana, a lei fa ridere. Anche perché negli ultimi cinque anni, con il vivere lontana, sono diventata una sbrodolona, quando infine la vedo. 
Se la me stessa di diciotto anni mi avesse visto ora, con la nonna, non ci avrebbe creduto (ma ci avrebbe sperato.)

Quindi, insomma: non torno, non ancora. Però torno presto. Ho comprato un biglietto, così non finisco senza soldi (idea dell'Asburgico, ovviamente, perché io non volevo avere una data e lui, che è un uomo concreto, mi ha detto, se vuoi essere a casa per Natale, compra presto. Perché se non troviamo un volo, o diventa caro, e ti lagni, io ti odierò molto. Quindi, ho un biglietto.)

Sono già affaticata e terrorizzata, all'idea di un ritorno in pieno inverno, da Colombo a Milano, e soprattutto all'idea quello che verrà dopo Milano, cioè la ricostruzione di una vita "normale" dopo il passaggio di Godzilla di un anno fa, dove ho detto a tutti: bella questa vita viennese! Ora la distruggo tutta per bene, e me ne vado. Ecco.

Ora mi godo il tempo che rimane, e al dopo Milano non ci penso. 
Però se mi fermo e ci penso un attimo, all'arrivare a Malpensa in un giorno probabilmente freddo di Dicembre, armata solo di una felpa perché i vestiti andini li ho spediti a casa, immagino la scena.

Immagino: atterrare. E aspettare che quei cialtroni degli omini dei bagagli di MXP si fumino una, due, venti sigarette, seduta per terra, finché non arriva lo zaino. Gli schermi nella sala dei bagagli con il volume alto, che in Italia gli schermi non sono mai silenziosi, o almeno a basso volume. Accendere il cellulare, e dire alla SG (Sacra Genitrice): siamo qui, aspettiamo i bagagli. Prendere lo zaino, uscire, sentire la botta di freddo, camminare fino all'uscita dove mi aspetta la SG che non parcheggia mai che è caro ed è lontano. Uscire, sentire ancora più freddo, vedere la macchina grigia che era del mio babbo, e come sempre, bussare al finestrino facendo le boccacce e dicendo: eccomi! E lei che mi abbraccia, e mi allunga un sacchetto con dentro la focaccia fatta dal fornaio egiziano del mio quartiere, che sa come mi piace.

Oh, lo so che sembra idiota, ma io in tutta la mia vita non sono mai stata lontana da casa per 12 mesi e passa senza mai tornare. Secondo me, avrò un freddo porco, ma nella macchina di mio padre, con la SG di fianco, l'Asburgico dietro, e un pezzo di focaccia gigante in mano, starò bene nonostante tutto. Nonostante la paura di quello che viene dopo.

Uff. Fatemi andare a leggere, vah, che altrimenti mi emoziono.