Italiani con zainetto / 1

Ho letto un post, qualche giorno fa, della Smila, che sta a Manchester e ha trovato lavoro in un ufficio, ora. Robe con la malattia pagata e quelle cose scic lì, mica cazzi! Insomma, la Smila, che è una donna di un certo livello, ha scritto questo post dopo aver visto in quanti arrivano al suo blog scrivendo "andare via dall'Italia." 
Da me arrivano scrivendo cose porno o cose emo tipo "ci vediamo in un'altra vita", da lei arrivano con la progettualità di cambiare la vita.
Vorrà dir qualcosa, orbene. 
Mi ha fatto pensare molto, e quindi le ho chiesto se potevo citarla e usarlo qui come mio primo ghestpost (o guest post, se siete avanti.) Lascio la parola a lei:

Questo post me l’avete praticamente strappato dalla penna. Tutti voi (tanti, cazz!) che ogni giorno iniziate la vostra emigrazione cercando su google “andare via dall’Italia”. E arrivate qua e incominciate a farvi un’idea di quello che possa voler dire farla veramente, quella cosa che vi viene in mente a ogni visione di TG, a ogni curriculum senza risposta, a ogni nuova tassa sulle mutande a pois, a ogni De Gennaro nominato sottosegretario.

Questo post ve lo scrivo in una giornata qualunque fuori dall’Italia e fuori dall’Euro, durante una tipica pioggia battente tra i raggi del sole. Durante una pioggia forte e duratura che non è un acquazzone estivo, non anticipa nessuna bella giornata e non porterà nemmeno l’arcobaleno. Alzerà vagamente le temperature, portandole a mala pena sopra la soglia del numero a due cifre.

Scrivo oggi – in una pessima giornata grigia e senza aprire i giornali italiani online – nel tentativo di essere razionale. Ché se per puro caso oggi qua ci fosse il sole o stessi leggendo uno di quei titoli dei nostri giornali mainstream (schifosi in forma e contenuti), questo post reciterebbe più o meno così: “sì, dobbiamo andarcene tutti dall’Italia”.

Quando sono partita per Manchester la sensazione era di aver preso una decisione molto importante in un tempo molto piccolo. Pensavo di aver fatto le valigie in quattro e quattr’otto senza essere stata a rifletterci troppo. Pensavo che la mia partenza fosse stata una diretta derivazione di pochi fattori che si erano sistemati in modo da tracciare una via irrinunciabile: perdita del lavoro, trasloco inevitabile, S. direzionato verso Manchester.

E invece non era così. Quelli sono stati solo gli episodi scatenanti. Latente, da molti anni oramai, c’era la consapevolezza di non stare bene, di aver bisogno di cambiare aria e soprattutto di smettere di vivere l’umiliazione quotidiana di lavorare in Italia, con una paga che non era uno stipendio, senza ferie, senza permessi, senza malattia, senza orari stabiliti, senza poter mettere da parte un soldo. La mia non-carriera italiana, fatta di lavori che mi piacevano molto e non pagavano e lavori che non mi piacevano e pagavano poco, fatta di giorni liberi dal primo lavoro per andare a fare il secondo, serate passate a lavorare da casa a cose interessanti e giornate passate in ufficio con gente meschina e approfittatrice, mi aveva stancato. Era chiaro che “fare gavetta” era una frase vuota. Perché quando esperienza, responsabilità e competenze aumentano mentre lo stipendio e i diritti diminuiscono, quello non si chiama gavetta, ma sopraffazione.
Allora mi sono trovata all’improvviso in un’altra nazione. Con l’entusiasmo e la paura delle cose nuove, quelle grandi, che cambiano la storia della tua vita.
Vivere fuori dall’Italia vuol dire accorgersi, con imbarazzo, di provare stupore per cose che dovrebbero essere la norma ma da noi non esistono: il tuo capo che ti dice grazie, un lavoro a tempo intedeterminato, il tuo stipendio che cresce ogni 3 o 6 mesi, assieme alla tua esperienza. E poi la possibilità di affittare una casa vera, intera, solo per te, anche se fai un lavoro umile, l’autobus che passa all’ora stabilita, le visite mediche con l’interprete nel caso tu non sia ancora pratico con la lingua. I figli di ragazze giovani, nati perché essere incinta non vuol dire anche essere licenziata. Le serate che iniziano alle 6.30 perché 8 ore di lavoro sono abbastanza e nessuno viene insultato per essere uscito dall’ufficio all’orario stabilito dal suo contratto. Essere considerato adulto e non ragazzo a 30 anni, con tutte le responsabilità del caso.
Vivere fuori dall’Italia è vedere una televisione che oltre alle scemenze presenta anche programmi interessanti, é vedere i film nella loro lingua originale. E’ ascoltare la gente comune fare domande a politici che rispondono per davvero. E’ ritrovare una dignità di persona e lavoratore che da noi non esiste più.
Vivere fuori dall’Italia vuol dire anche essere lo straniero: immergersi in una cultura nuova e sconosciuta, non capire le battute nazionalpopolari e non conoscere i personaggi famosi, sperimentare la guerra tra un cervello che pensa con la sua cultura e una bocca che parla una nuova lingua. Vuol dire sentirsi rispondere “è per questo che l’Italia è fallita” ogni volta che commenti il prezzo esagerato dell’insalata, vuol dire comprare i pomodorini a decine anziché a chili, rinunciare al pane vero.
Vivere fuori dall’Italia vuol dire essersene andato e cioè stare lontano: da quegli amici cui non devi raccontare il passato perché l’hanno vissuto con te, dalla famiglia, dal tuo locale preferito, dal profumo della peperonata al giovedì e della pasta col sugo avanzato il giorno dopo. Vuol dire dover rendere tua un’altra casa, senza i mobili di sempre e lo specchio nel quale ti vedi più magra. Vuol dire litigare col tuo fidanzato e non poter sbattergli la porta in faccia per andare a parlar male di lui con la tua amica. Vuol dire non esserci quando succedono le cose importanti a quelli che conosci e aspettare di essere tutti connessi a skype per dirsi le novità. Dover andare al matrimonio con un vestito inglese, cercando quello che sembri meno inglese possibile. Tenere sotto controllo quotidiano le offerte delle compagnie aeree.
Vuol dire provare frustrazione al ventesimo giorno di pioggia, a maggio, quando il tuo corpo è pronto alle maniche corte ma fuori ci sono 11°. Vuol dire cominciare nuove relazioni, conoscere nuovi locali e nuovi indirizzi, con tutta l’eccitazione dei primi mesi e la stanchezza dei mesi successivi. Vuol dire nostalgia costante, più o meno intensa, ma presente, come compagnia fissa.
Vivere fuori dall’Italia vuol dire sapere cosa succede in patria dai giornali e dagli amici, senza vivere in prima persona lo spirito del tempo e senza contribuire in nessun modo. Vuol dire vedere il tuo paese che continua la sua caduta e sentirti vigliacco ed egoista per non aver provato a metterci del tuo.
E poi vuol dire molte altre cose: divertenti, estenuanti, piacevoli o insopportabili. Vuol dire diventare più ricchi di esperienze e più poveri di relazioni, più forti per alcuni versi e più deboli per altri. E mille altri contrasti e sensazioni difficili o facili da vivere a seconda del tuo umore o del clima o dell’avvicinarsi del tuo prossimo rientro in patria.

Insomma non è facile. Ma nemmeno così difficile. Si fa, lo possono fare tutti. Secondo me quello che ci vuole più di tutto è non programmare troppo in là, procedere un po’ per giorno. E vedere come va.

Ecco. A me è piaciuto molto, questo post della Smila, che è un po' più "indietro" di me a livello di tempo, nel suo essere parte di quel fantomatico mondo che è quello degli italiani all'estero, che è una realtà che include di tutto. 


Sono d'accordo con lei su un sacco di cose, escludendo il pane, che in Asburgica è buonissimo, e le esperienze passate, che naturalmente sono diverse. Io in Italia ho lavorato pochissimo - sono partita per la Turchia due settimane dopo la laurea, e da che non sono più studente in Italia ci ho passato solo sette mesi circa, da lavoratrice, e comunque in un settore che non fa testo, quello dell'insegnamento a stranieri (la mia esperienza era relativamente positiva, il problema era il costo della vita a Milano e l'Asburgico che era incredulo davanti alla realtà lavorativa terrificante dell'Italia. Giustamente.) All'estero ci sto abbastanza bene - altrimenti direi che sarei già tornata. Anche se l'ammore per l'Asburgico, effettivamente, mi lega le mani: lui, dice, in quel paese di sciroccati ci vuole andare solo in vacanza ogni tanto. E come dargli torto, gli stranieri che vivono in Italia devono avere forte motivazione. Non ce l'ho io, al momento, figuriamoci lui. 

Poi magari elaboro meglio e scrivo un post come quello di Smila, però ho deciso che chiederò ad alcuni bloggher (o anche non bloggher. Anche chi non ha un blog, perché no) che conosco di scrivere un ghéstpost come questo per me, perché mi piace che ci sia uno scambio di opinioni qui che dia più spazio di un commento.

Lettori abituali con zainetto, sapete chi siete (Niki, Manoel, Cecilia, Mariantonietta, Vale VK?) e vi va di raccontarmi un po'? O anche lettori che non conosco o che non commentano: mi raccontate? 

8 comments:

  1. Questo è proprio un post solenne! Condivido molte osservazioni.
    Credo che ogni scelta ci guida verso una situazione con inevitabili "pro e contro". E' solo il nostro giudizio che si formula con criteri strettamente personali che ci dice vai o resta.
    Per quanto riguarda poi il lavoro non è che all'estero la situazione sia sempre così splendida, forse in Inghilterra o in altre nazioni seriose.
    Se finite in un Paese vergine e di frontiera come il Messico, per esempio, i primi tempi troverete lavori part time sulla parola, pagamento in contanti e con possibilità di sorprese (non sempre belle!)
    Ma è la vita...

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  2. Eh beh ma la Smila ci sta dentro, per quello la leggo!
    sì beh, infatti trovo sia molto diverso finire in Austria o Britannia rispetto al Messico.
    la mia prima esperienza da italiana con zainetto è stata a Istanbul, ed è stato molto diverso che arrivare a Vienna.
    come dici tu: si lavora molto a kadzo, pagati in contanti, spesso in modo illegale... diciamo che forse ci vuol più tempo a stabilizzarsi. di certo a Istanbul mi sentivo molto più cazzara che non qui, dove sono un modello di efficienza. tanto per non contraddire il gene milanda, no? ;p

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  3. che bello amica! non vedo l'ora di leggere gli altri!

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  4. presente!...ma ho bisogno di qualche giorno di tempo perche' dopo 3 settimane in italia dalla mamma con la pargola e il pancione, sono appena tornata qui e devo ritrovare il mio assestamento, attualmente sono arrabbiatissima contro tutte le ingiustizie che ho sentito diretamente per 3 settimane e ho poca lucidita'!

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  5. io potrei raccontare un'esperienza completamente diversa, sia nei presupposti in italia che nella vita vissuta a lisbona.
    lo faccio dopo la sessione estiva degli esami. (e dai dai dai, che ce la posso fare). ricordamelo a metà luglio!

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  6. Nonostante la zucca in avaria ho capito bene? ti ospitiamo con un post? No problem, ma va fatto in ottobre: da giungo in poi i lettori diminuiscono drammaticamente!
    Abbraccio sorellina!
    p.s. Sono ancora con connessione a prestito, ergo, giro pochissimo :-(

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  7. Mariantonietta e Vale: sìsì! scrivete, scrivete :) quando volete voi, a tempo debito.

    Niki: no, il contrario in effetti: se ti va, tu mi scrivi delle tue esperienze di Italiana con Zainetto (e ne hai TANTE, tu) e io pubblico il tuo intervento qui, con un link. che dici? PS allora anche a te sono diminuiti gli accessi? sarà che sono tutti al mare. mica come noi ;)

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  8. Certo che mi sono diminuiti gli accessi. Succede tutti gli anni. Vanno su e giù per tutta l'estate, con punte negative in luglio-agosto e ripartono verso metà settembre.
    Dai, a settembre tu scrivi un post per me e io uno per te. :-)

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Dimmi, dimmi tutto!