Mi è sempre piaciuto il titolo di questo
film. Non l'ho neanche mai visto, so solo che è ispirato alla Coscienza di Zeno, e che c'è Chiara Mastroianni. Ma mi fa sempre pensare a mio padre, che di parole ne partoriva un sacco. Era un chiacchierone, come me.
Comunque.
Ieri era il compleanno di mio padre, che si chiamava Stefano. Possiamo dirlo, tanto a lui non fa male di certo. Era un tipo alto, scuro di pelle, scuro di occhi, scuro di capelli. Lo divertiva dire che quando andava in Marocco nessuno pensava che fosse straniero, perché con quella faccia lì, chi avrebbe dovuto? Chiaramente quando si portava in giro me, quando ero piccola, la gente ci guardava e diceva: ma questi due? Perché io ero biondissima, con gli occhi azzurri, la pelle chiara, tutta mia madre, insomma. Di lui, diceva, avevo il carattere, la romanità genetica e i decibel quando parlavo. Di mia madre, i colori, e il piacere dello stare sola a disegnare o a leggere.
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Romano. Ha lasciato Roma a 16 anni ma non ha mai perso il suo accento, anche se la parte romana della tribù poi gli diceva
parli come un milanese! Era una persona allegra, amava ridere e far ridere, avrebbe voluto fare l'attore di teatro, se non avesse dovuto preoccuparsi di mantenere mamma e fratello, diceva. Aveva 16 anni nel 1968, ed era un uomo di destra. Diceva che a 16 anni più che per politica era entrato nell'MSI perché tutti gli altri non lo facevano. Quel che posso dire è che, di destra o meno, mi ha lasciato sempre libera di esprimere le mie idee, di fare ciò che volevo, di prendere
'sta direzione da fricchettona, diceva ridacchiando. Per un sacco di cose, a dire il vero, era molto più aperto di molti dei genitori di sinistra che ho incontrato - quel che contava, per lui, era il dibattito, anche acceso, anche quando sfociava nelle risse verbali, con mia madre, poveretta, a fare da arbitro involontario e esasperato. Avete mai letto
questo libro? Il personaggio di Accio mi ricorda tantissimo mio padre, è stato un po' doloroso leggerlo, per questo. Mio padre ha sempre difeso la mia libertà di fare ciò che voglio, anche quando per alcuni nella famiglia era strano: soprattutto quando era strano. Per lui se qualcosa era
fuori dagli schemi, una delle sue espressioni predilette, allora andava bene, e andava incoraggiato. Come farmi imparare l'inglese fin dall'infanzia, nell'Italia degli anni 80 che delle lingue se ne fregava.
Naturalmente non era perfetto - era incazzoso, poteva essere attaccabrighe, era polemico, poteva essere pesante e ossessivo per quanto riguardava la politica. Come tutti, aveva lati negativi. Però, oh, era mio padre, e io gli volevo bene, anche quando ci scannavamo.
Ho dovuto guardarlo spegnersi lentamente per una leucemia, per più di un anno, che per me è stato difficilissimo, dato che all'epoca il mio ragazzo di allora con tempismo geniale ha avuto grossi problemi psicologici proprio in quel momento. Ma non è di lui che voglio parlare.
Mio padre è morto che avevo compiuto ventiquattro anni da un mese e due giorni. Il giorno del mio ultimo compleanno con lui non ho potuto abbracciarlo, perché io avevo il raffreddore, lui il sistema immunitario a zero, ed era troppo pericoloso. Mi si fa un nodo alla pancia solo a scriverlo.
Io questa cosa, ragazzi, mica l'ho ancora superata del tutto. Mi vengono i lucciconi e il mal di pancia dal niente, in questi giorni, non dormo, e sono passati quasi sei anni. Boh.
Il fatto è che se n'è andato proprio quando stavo diventando grande davvero. Mi sarebbe piaciuto poter avere con lui il rapporto che ho con mia madre, e cioè un rapporto tra pari, certo, sarò sempre la figlia di mia madre, ma da quando sono uscita da casa è cambiato molto, è come se fossi diventata grande, come se mi prenda più sul serio. Ecco, non lo avrò mai, questo con lui. L'ho guardato spegnersi piano, un uomo alto e grosso, energico, che amava uscire, ballare, bere, gridare e ridere e perché no, prendersi una sbronza tra amici qua e là, costretto in un ospedale, coi tubicini e la morfina e le maschere per ossigeno. Alla fine mi sembrava una conchiglia vuota. Per questo gli ultimi giorni non mi sembrava ci fosse già più. L'ultima cosa che mi ha detto è stata "mi dispiace." Mi ha guardato con questi occhi neri, enormi, nella sua faccia smagrita, e ha detto, lui a me, mi dispiace, che era stanco. E io gli ho detto che lo capivo, capivo come uno vitale come lui ne aveva le palle piene di stare lì dentro.
Quello è il motivo principale per cui sono scappata a Istanbul, che mi ha curato. Milano era piena di ricordi, perché io con lui ho sempre fatto mille cose. In Galleria mi ci portava perché amava farsi l'aperitivo la domenica mattina. Lui col Corriere, e io coi fumetti della Pimpa su cui mi insegnò a leggere che avevo tre anni. Il cameriere mi portava sempre l'acqua con l'ombrellino rosa colorato, di quelli che si usano per i cocktail, perché era in tinta con la mia giacca e ci conoscevano. Ai giardinetti mi portava a giocare a calcio, che mica non puoi giocare a calcio solo perché sei una bambina, se ti piace. Tutti i cinema di Milano, quelli che resistono - abbiamo visto millemila film d'essai insieme.
Mi manca. Mi piacerebbe sapere che ne penserebbe lui di me ora, della vita che faccio, di M., che è diverso da lui e per tante cose è anche terribilmente simile. Lo so che non mi riprenderò mai - però in giorni come ieri è più difficile che in altri.
Che palle. Posso tornare a essere la cojona solita che scrive osservazioni da sociologa nel cassetto sul paese dove vive? Che fatica. Uffa.